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Michele Neri: l’origine di questo linguaggio fotografico nuovo, vago, analfabeta, ricco, strano

Michele, vorrei iniziare dai lettori di Maledetti Fotografi. Questo magazine funziona in modo molto semplice: se pubblichiamo un’intervista a facciamo qualche migliaio di visite, se pubblichiamo un trentenne contemporaneo che fa esperimenti con la macchina fotografica, ne facciamo qualche decina. Nel tuo ultimo libro, , spieghi che tutta l’attenzione che vediamo oggi verso i grandi autori classici non è un atteggiamento conservatore, ma è la ricerca di punti di riferimento che aiutino a comprendere il proprio percorso.

Credo che risponda anche a un senso d’insicurezza sul presente, siamo sommersi dalla sensazione che tutto sia uguale, fluido e pressoché privo di vette. Per questo si cercano conferme attraverso il ritorno al classico, a qualcosa di puro. Oggi, in questo flusso di immagini confuso che non permette di fare distinzioni, aggrapparsi ad uno scoglio come Koudelka è la garanzia che la fotografia possieda ancora dei punti fermi.

Ma è impossibile produrre, o studiare, fotografia senza un punto di riferimento?

Bisognerebbe cercare di non fermarsi alla tradizione ma di accettare questa confusione adolescenziale, come la definisco nel libro. Bisognerebbe cercare di vedere l’energia enorme che c’è sotto questo magma e che, per ora, non è matura. Il mio approccio è stato quello di cercare di capire l’origine di questo linguaggio fotografico nuovo, vago, analfabeta, ricco, strano.

Bisognerebbe cercare di vedere l’energia enorme che c’è sotto questo magma e che, per ora, non è matura.

Molti sottolineano un analfabetismo diffuso nei confronti delle immagini. 

Esistono almeno due tipi di analfabetismo. Uno è tecnico, legato alla composizione, al rigore, e questo mi pare meno grave. Poi c’è un altro analfabetismo, ed è quello che mi interessa di più, che è di tipo etico e umanistico. Ciò che manca oggi non è la tecnica, quanto un principio etico, un background che faccia della fotografia un sentimento, un valore, una necessità.

È certamente vero per chi fa fotografia per passione o per curiosità. Ma anche chi fotografa per professione è spesso soggetto a scelte così inedite, in tempi così rapidi, che non ha la possibilità per fare profonde valutazioni. In altre parole, un lavoro realizzato con le migliori motivazioni può finire in contesti sbagliati e venir meno all’etica.

Qui forse c’è un’altra questione ed è legata ai tempi di reazione. Oggi il consumo delle immagini è diventato eccessivamente veloce. La normale maturazione del proprio lavoro, che aveva bisogno di intermediari, di editing, di curatori, adesso si espone senza una mediazione, in modo nudo e crudo, a ciò che sta fuori, ad una audience immediata. Questo può produrre meccanismi di accelerazione acritica.

La “Photo Generation” è quella che scatta foto ma non pensa alle conseguenze. 

C’è una inconsapevolezza sull’utilizzo che viene fatto delle proprie fotografie. Ma lo stesso atto di fotografare è oggi un gesto inconsapevole, è diventata una delle azioni della quotidianità. Ma è diventato normale anche entrare nelle immagini altrui, e sempre di più spesso succede senza che ci si accorga. Tutto questo assomiglia a quella ripetitività di azioni vuote tipiche, appunto, dell’adolescenza.

Tu affermi che questo condiziona anche la formazione della nostra identità?

Certo, è un meccanismo automatico che può produrre delle alterazioni nella nostra vita. Il fatto di continuare a scattare senza farsi alcuna domanda non ha più niente a che vedere con quella strettoia fatta di luce, tempo e volontà che era la fotografia. Ma, appunto, è interessante domandarsi quale ricaduta avrà sulla nostra identità. Se noi continuiamo ad entrare in immagini che un giorno deporranno a favore o a sfavore della nostra reputazione, mi pare che l’atteggiamento sia quello di chi sta preparando, ogni giorno, il proprio necrologio, come ha scritto il romanziere inglese di origine indiana Rana Dasgupta.

Il fatto di continuare a scattare senza farsi alcuna domanda non ha più niente a che vedere con quella strettoia fatta di luce, tempo e volontà che era la fotografia.

Stiamo parlando di tutto questo perché, una decina di anni fa, qualcuno ha deciso di installare una fotocamera nel telefono.

Dici che se avesse installato un termometro, saremmo qui a parlare di meteo?

Può essere.

È possibile, ma credo che ci siano delle ragioni per cui l’immagine è entrata nel primo Nokia e poi in tutti i telefoni successivi. L’immagine faceva già parte del nostro dizionario universale, molto più della parola, era una necessità pregressa di relazione con l’altro che cercava uno sfogo. Il tema centrale di questi anni riguarda lo spazio tra noi stessi e l’altro e le immagini sono il mezzo più universale per occuparlo. Il fotogiornalista ha sempre cercato di utilizzare la fotocamera per occupare questo spazio, e ha quasi sempre tentato di farlo in modo rispettoso, per testimoniare una verità, per quanto si sappia che al massimo si può arrivare a un’approssimazione.

Qualche settimana fa, durante il terremoto nel centro Italia, i media tradizionali dalle loro home page sollecitavano i lettori a mandare i propri scatti alla redazione. È un cambiamento interessante o una deriva?

Da un lato, è un arricchimento, dall’altro c’è uno sfruttamento delle immagini molto utilitaristico e non educativo. A me colpisce molto quando le immagini scaricate da Facebook, per esempio dal profilo di una vittima di un fatto di cronaca, vengono accostate nella stessa gallery o nella stessa pagina alle fotografie realizzate da un professionista. La trovo una sequenza non logica di contenuti diversi: nella stessa gallery troviamo le fotografie responsabili realizzate da un professionista e fotografie dell’utente, scattate in tutt’altro contesto e per tutte altre ragioni. Anche qui, c’è inconsapevolezza. Chi ha realizzato quelle foto non era consapevole che sarebbero state utilizzate per vendere un giornale, per ottenere un clic in più, non poteva valutare tutti gli aspetti di cui, invece, un professionista è consapevole.

Il fatto di utilizzare “fotografie inconsapevoli” probabilmente nasce anche da un vuoto. Oggi il sistema dell’editoria italiana sembra paradossalmente meno connesso con il mondo rispetto ai tempi, per esempio, di Grazia Neri. Quando non si interpellano i professionisti, e spesso neppure si conoscono più i professionisti, si attinge al materiale più facile da reperire.

Non so se le due cose non sarebbero comunque andate avanti in parallelo. Nella mia vita, da una parte sono stato legato all’attività professionale in agenzia, ma dall’altra sono sempre stato attratto dal cambiamento e ho sempre pensato che l’ondata dei contenuti creati dagli utenti sarebbe stata deflagrante e avrebbe sconvolto il mercato. Ad un certo punto, quel gioco meraviglioso dell’agenzia, quel grande luogo di scambio che io paragonavo ad una stazione ferroviaria, si è ridotto. Ma si è ridotto per molte ragioni, non solo per la crisi dei budget o l’affermazione degli smartphone. Penso alla legge sulla privacy che ha imposto vincoli fondamentali all’accesso dei fotografi alla vita privata delle persone. Oggi siamo sommersi di nuovo da fotografie di vita quotidiana delle persone, ma quindici anni fa queste storie non potevano più essere raccontate. Sentivo allora che si stava creando un vuoto enorme da riempire, e capivo che sarebbe stato riempito da un altro tipo di fotografia.

Tu pensi che oggi ci sia “vita vera” in questa nuova fotografia?

Molto poco e anche qui c’è un paradosso. Su Instagram si vedono abbellimenti, fotografie idealistiche, aspirazionali, molto conservatrici. Ma la vita reale non si vede. Questo vale anche per i media tradizionali. Anni fa mi chiedevo se i giornali di oggi fossero finiti in una cassa in mano ai marziani del tremila, questi che cosa avrebbero capito di noi? Il mondo reale, in quella cassa, non ci sarebbe entrato. Oggi i numeri ci sono, le fotografie vengono prodotte, ma in definitiva la vita vera resta ancora fuori da quella cassa.

Su Instagram si vedono abbellimenti, fotografie idealistiche, aspirazionali, molto conservatrici. Ma la vita reale non si vede.

Secondo te è possibile dare qualche regola alla ?

Come dicevo, non è tanto l’aspetto tecnico che mi interessa, ma vorrei che ci fosse più consapevolezza. Lo scatto con lo smartphone si conclude nel momento in cui viene fatto, ma prima e dopo quel momento c’è tutta la vita della fotografia. È su questo punto che ci può essere un collegamento tra la fotografia che andiamo a vedere nei musei e la fotografia che due o tre miliardi di persone condividono ogni giorno.

Può essere che questi tre due miliardi di persone diano lo stesso nome – fotografia – sia alla stampa di Salgado esposta nel museo, sia a quella cosa che stanno condividendo. Ma in realtà sono loro i primi a considerarle cose completamente diverse, nessuno di loro ha mai pensato che l’una fosse figlia o parente dell’altra. 

Anche io ho ragionato su questo. Ma purtroppo non esiste ancora un’altra parola che definisca quella “fotografia”, e credo che bisognerebbe trovarla tramite ciò che questo gesto evoca. Se si vuole cercare un punto di partenza su cui ragionare, credo che fare fotografie sia diventato qualcosa di più simile alla telepatia, ad un modo per connettersi con chi ci si sta vicino, e rispetto alla Fotografia è naturalmente una cosa diversa.

Quando parliamo di fotografia, si finisce sempre per fare riferimento al “vero”, e qui si aprono le divisioni. Possiamo sdoganare una volta per tutte il “verosimile”?

Finché un bambino ha cinque o sei anni, sente il bisogno di chiedersi se una cosa è vera o è falsa. Probabilmente questo gli porta un benessere, una chiarezza. Nell’adolescenza questo bisogno di distinguere si perde e, per quanto riguarda l’immagine, l’adolescente sembra apprezzare sempre di più la manipolazione, i trucchi, i filtri. E qui penso che ci sia una frattura da sanare. Perché se i ragazzi si abituano a non dare importanza alla distinzione tra vero e falso, diventa impossibile ripartire da un’etica dell’immagine.

Con queste premesse, la “vita vera” nella scatola per i marziani non entrerà mai.

La vita vera, anche con gli smartphone, non è ancora arrivata.

Ma non arriva perché a nessuno di noi interessa condividerla. 

È necessario che qualcuno faccia un passo avanti, che operi una rottura e che mostri la vita vera. Milioni di persone mandano oggi su Instagram una foto che riprende i modelli imperanti, aspirazionali, di abbellimento, di benessere. Ma noi nella nostra verità non siamo mai peggiori di quello che il cliché impone. Il cliché, l’aspirazione, il politicamente corretto sono peggio del peggiore sé.

Tra il fotogiornalismo classico e Instagram, c’è una fase intermedia che viene spesso ignorata: le foto di stock. Sono state le prime a portare i modelli imperanti nell’editoria e nella fotografia professionale.

Con loro si è aperta una crepa nel mercato, naturalmente. Ma soprattutto questo tipo di immagini hanno portato al disinteresse, anche se inconsapevole, del lettore verso i giornali. Se il giornale continua a pubblicare fotografie ripetitive di persone sorridenti e molto simili tra loro, e spesso scattate in contesti che non ci riguardano, si genera una progressiva diseducazione e allontanamento. È un’altra parte di “vero” che scompare. Basta guardare al caso della fotografia adoperata nella campagna sulla fertilità del ministro Lorenzin.

È probabilmente la velocità una delle cause di questi cliché, di questo comunicare per simboli.

Pensa alle didascalie. La didascalia rallenta la fruizione di un contenuto, e anche queste nei giornali sono quasi scomparse, sono sempre più piccole e meno informative. Le didascalie degli anni settanta e ottanta fornivano informazioni fondamentali, venivano scritte con la stessa cura dell’articolo.

Rispettare ogni aspetto della fotografia significa rispettare le storie che vengono fotografate.

Se sono arrivato a fare questi ragionamenti, è perché negli anni ottanta e novanta ho incontrato un vasto gruppo di fotoreporter e, in loro, ho sempre riconosciuto il tentativo di conservare il rispetto per l’altro e di vincere l’indifferenza. C’erano agenzie più o meno piccole, o free lance incredibili come Tim Hetherington nei quali convivevano la creatività tecnica e il rispetto dell’altro. Queste forme di rispetto valgono sia nella fotografia sia in questo magma indefinito che nasce con gli smartphone. Nel momento in cui rivolgi la macchina fotografica o lo smartphone all’altro, non lo fai soltanto per cambiare qualcosa, ma per essere cambiato a tua volta.



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Fonte: https://www.maledettifotografi.it/fotografi/feed/


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