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Daddy's Groove, da commercialista a dj superstar: “La notte che ha cambiato la mia vita”

“Ho vissuto gli anni in cui da Napoli passavano i dj house più forti del pianeta. Da loro ho imparato tanto. La vittoria è poterlo esprimere di nuovo al massimo”. Carlo Grieco scava nei ricordi più lontani per spiegare che suono hanno i suoi Daddy’s Groove oggi. Frontman del gruppo nei festival e nelle console più importanti, in studio affianca il socio Peppe Folliero. “Burning” è il loro secondo singolo assieme all’amico Bob Sinclar, l’ennesimo su una super etichetta come Spinnin’ Records. Cantato superbo (fa leva sul ritornello di Don’t Leave Me This Way degli Harold Melvin & The Blue Notes, la cui cover più celebre è quella di Thelma Houston), grande carica ritmica, amplifica la magia del classico house Swimming Places di Julien Jabre. Un po’ a rimarcare una versatilità stilistica e quella capacità di vederci lungo che hanno portato il team partenopeo a lavorare con popstar come Skin, Britney Spears, Lady Gaga o David Guetta: “Dopo Nothing but the Beat e Listen, prenderemo parte anche al suo prossimo album”, anticipa Grieco.

Puntare sempre più in alto è la chiave di tutto? 
“Nel momento in cui smetti di farlo è la fine. Ci piacerebbe portare una ventata di aria fresca nella musica italiana, produrre artisti che puntano a Sanremo. Lanceremo un nostro party a Miami, se dovesse andare bene anche a Ibiza”.  
Oggi il pubblico più ricettivo dove si trova? 
“Senza dubbio in Asia. Quando capita di esibirmi da quelle parti devo spingere di brutto, vanno pazzi per l’EDM da festival. Oggi, per loro, è il mainstream”.  
La diamo per morta da anni, intanto continua a riassestarsi.  
“Non avendo esponenti locali di riferimento, considerano europei e americani delle popstar. È bello ritrovare da quelle parti l’entusiasmo italiano degli anni ’90. Al Sound Museum Vision di Tokyo venni travolto dalle urla di alcune ragazze sotto il palco non appena mi affacciai in console. Un’accoglienza che manco Justin Bieber (ride, ndr)”. 
Quell’entusiasmo italico che fine ha fatto? 
“Paghiamo una mancanza di professionalità che ci contraddistingue da sempre. Sognarsi adesso una promozione dalla Serie C alla Champions League è da pazzi. In passato partecipavamo, ci aiutava un mercato più ampio, giravano più soldi. Su questo ci hanno mangiato in troppi”.  
In cosa non siamo ancora pronti? 
“Abbiamo serie difficoltà con l’inglese, non curiamo i dettagli, restiamo dei provinciali. L’esatto contrario dell’Olanda, destinata a restare a lungo il baricentro della dance”. 
Hai detto: “Le discoteche sono al minimo storico”. 
“C’è stato un periodo in cui chiudevano i cinema, oggi chiudono i locali. Le discoteche sono invase dai ragazzini, si è perso il gusto della scoperta. E chi aveva la possibilità di aprire un locale o di organizzare eventi ha raschiato il fondo”. 
Questa fase di stanca farà pulizia? 
“L’ha già fatta, soprattutto tra chi improvvisava”. 
Un club immortale? 
“Il Pacha di Ibiza. Mi son sempre detto: Non andarci da turista, un giorno ci andrai da dj“. 
Hai puntato al massimo chiaramente. 
“La prima volta in cui ho messo piede sull’isola è stato per suonare al Pacha alla serata Masquerade Motel degli Swedish House Mafia. Su invito di Axwell”. 
La notte più folle da quelle parti? 
“Nel 2013, durante il party F*** Me I’m Famous di David Guetta, sempre al Pacha. Mi esibivo dopo David, gli feci presente che avrei suonato Surrender, futuro singolo dei Daddy’s Groove. È forte almeno quanto la mia Titanium, disse. Magari esagerava, ma fu un complimento bellissimo. Ci valse la presentazione del disco al Tomorrowland”. 
Che tipo è David Guetta? 
“È un uomo equilibrato, semplice, forse un po’ troppo fissato col lavoro. Non guarda un film da 20 anni, l’unico diversivo è la palestra. Il divorzio non l’ha cambiato. Come non l’ha cambiato il successo. Anche Bob Sinclar e Axwell sono delle grandi persone. Più vai in alto, più le eccezioni negative sono poche. Tuttavia esistono”.  
Per esempio? 
“Con Avicii ci conoscemmo nel backstage della festa di Guetta a Miami, non aveva ancora pubblicato Levels. Mi raccontò che ai tempi percepiva 4.000 euro a serata. Nacque uno scambio di mail e messaggi, fino all’uscita di Levels. Da quel momento, mai più sentito. Sparì. I motivi li ignoro, ma è facile immaginare che in realtà tutto quel successo non lo abbia mai metabolizzato”. 
All’inizio parlavamo di miti. 
“I miei sono stati i Masters At Work, Tony Humphries ed Erick Morillo. Dicevo a me stesso che se un giorno fossi arrivato a quel livello sarei stato umile come loro. Da i MAW ho rubato l’amore per il ritmo, per il mondo latino. Da Humpries il modo di gestire un dj set, mette pezzi energici o dà tregua alla pista come pochi. Morillo, infine, è energia allo stato puro. Solo vederlo muoversi è già uno spettacolo. È la prova vivente che in console la fisicità è tutto. Un dj è come un calciatore: se è bravo lo capisci anche solo da come sta in campo”. 
E pensare che tuo padre ti voleva commercialista. 
“Staccava spesso la spina della corrente, ma io la riattaccavo e riprendevo a suonare. Ho studiato economia per qualche anno, poi mi sono fermato. Già ai tempi facevo un sacco di serate, guadagnavo bene. Mio padre resta una guida, il punto di riferimento più importante. Ma sul lavoro si sbagliava. Sia chiaro: parliamo di 20 anni fa, quando fare il dj non veniva visto nemmeno come un hobby, mentre adesso è un mestiere popolare. È un po’ come se mio figlio, che ha 5 anni e ama disegnare, venisse a dirmi che da grande sogna di fare il pittore. Se un giorno dovesse diventare un grande artista, vorrà dire che aveva ragione lui. Come l’ho avuta io diventando un dj importante”. 
Quando hai capito che non avresti più mollato? 
“Quando ho iniziato a credere in me stesso e ho smesso di lasciarmi influenzare dai fallimenti altrui. La nostra resta una professione difficile, ma ho sempre pensato di saper fare questo lavoro molto bene”.  
Nella fatalità ci credi? 
“Al 50%, il resto è talento. Anzi, facciamo così: 60% talento e 40% fortuna”. 
Nel tuo lavoro qual è stata? 
“Di sicuro, se in quell’albergo di Miami ci fossi andato un giorno prima, come avevo deciso di fare, l’amicizia e la collaborazione con David Guetta non sarebbero mai arrivate. Ero convinto che il successo portasse alla felicità. Invece ho capito che l’unica via per essere felici è imparare a godersi le conquiste della vita in modo sereno e consapevole”. 
Un traguardo anche quello, non ci arrivi subito.  
“Oggi so che per ogni giorno di vacanza ce ne sarà uno in più in studio a fare musica. E che dopo ogni tour passerò altrettanti giorni a casa assieme alla mia famiglia, agli amici, alle persone a cui voglio bene. Fra cinque anni, potrei anche non avere più successo, e sarei felice lo stesso. Perché ci saranno sempre mia moglie, mio figlio e uno studio in cui sbizzarrirmi e creare musica. Che per me resta la cosa più bella del mondo”.

di Leonardo Filomeno
@l_filomeno


Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/rss.jsp?sezione=375


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