in

Marco Maria Zanin: esploro il presente fino alla più profonda delle sue radici

, da quattro anni tua vita è divisa tra l’Italia, Padova, e il Brasile, San Paolo. Dici che lo fai perché hai bisogno di spostarti per comprendere e per decodificare il presente.

Certo. Sono stato attratto dal Brasile perché è il luogo più distante, sia a livello geografico che simbolico, da quella che è la mia terra d’origine. Credo che uno dei problemi più grandi dell’epoca contemporanea sia che abbiamo sostituito i principi universali, i punti guida, con le sovrastrutture. Ad esempio, se chiedi ad una persona che cos’è la giustizia, ti risponderà che è un sistema di norme. Chiamiamo giustizia ciò in realtà che è un codice. Continuiamo a parlarci tra addetti ai lavori, a cercare soluzioni dentro i problemi stessi.

Abbiamo una visione troppo confinata al territorio in cui ci troviamo, e peggioriamo le cose perché pensiamo che questa sia una visione universale.

Credo che la prima cosa che dobbiamo fare per riuscire a decodificare il presente sia uscire da questi compartimenti stagni. È qui che nasce l’esigenza di ciò che io chiamo dislocamento, ovvero uscire forzatamente da un contesto per collocarsi in un altro, il più distante possibile rispetto alle categorie del contesto di partenza.

Tu metti in atto il tuo “dislocamento” tra Padova e San Paolo. Che cosa rappresentano?

Padova e San Paolo sono due città che più diverse non potrebbero essere. Una rappresenta il legame con la terra, con le tradizioni, con le radici. L’altra rappresenta il salto nel mondo, il cemento, l’incertezza, l’esplosione delle metropoli contemporanee. Uso questi due poli come due pietre focaie, facendoli cozzare uno con l’altro per generare scintille in grado di aprire possibili vie d’uscita.

Parliamo della percezione che il pubblico, i tuoi collezionisti, i tuoi galleristi hanno di te. Anche qui siamo piuttosto distanti: sei al tempo stesso un giovane emergente in Italia e un autore nel pieno del proprio percorso lavorativo per il resto del mondo.

Non è solo una questione di età anagrafica. Il mio lavoro in Brasile, da quando sono arrivato quattro anni fa, viene assorbito e viene fatto circolare. È normale che sia più difficile avere attenzione all’inizio della carriera artistica, però, ancora adesso, in Italia a volte succede che quando chiedo ad un curatore se posso mostrare il mio lavoro, questo mi guardi dall’alto in basso. In Brasile non è mai successo, c’è sempre stata un’apertura, un grande interesse nei confronti di un artista proveniente, tra l’altro, da un contesto così diverso.

Non credo sia solo un fatto di atteggiamento, di sensazioni. Da un punto di vista pratico, dove sono le differenze?

In Brasile, oltre a quelli storici, c’è una generazione di curatori dai venticinque ai trentacinque anni che ha in mano la situazione. Sto parlando di livelli altissimi, anche istituzionali. Vengono organizzate tantissime mostre collettive, le gallerie si confrontano, collaborano, scambiano, non sono gelose dei loro artisti. Poi i luoghi istituzionali hanno un ottimo sistema di bandi per esposizioni temporanee che vengono finanziate dalle istituzioni stesse, nonostante il Brasile sia entrato in una grossa crisi economica. Infine, il punto di forza è proprio questo grande desiderio di condivisione e di scambiare idee. Capita, almeno due o tre volte a settimana, che artista e curatore si siedano attorno ad un tavolo e passino ore a sviscerare i contenuti relativi alle rispettive ricerche. Ci sono gruppi di discussione, si fanno vedere i lavori e questo permette al lavoro di un artista di rafforzarsi e assumere rotondità. Ovviamente, in questo modo, sei anche molto più presente nel mercato, i collezionisti ti vedono e ti seguono.

La tua ricerca sintetizza uomo, territorio e tempo. È intorno a questi tre temi che rintracci le linee guida della contemporaneità?

Quello che cerco di fare con le mie fotografie è una sorta di carotaggio, da quella che è una manifestazione formale contemporanea fino agli strati più sotterranei, dove si muovono, anzi ci muovono, i miti e gli archetipi. Cerco di leggere nella realtà i modi con cui lo spirito ha intriso la materia nelle sue diverse manifestazioni. Molti dei segni che nascono nell’interazione dell’uomo con la materia possono essere letti come dei simboli, dall’architettura alle infrastrutture, dall’oggetto sacro allo strumento di lavoro. Questa lettura multidimensionale ci può aiutare a una maggior consapevolezza quando poi dobbiamo agire in prima persona, quando dobbiamo essere noi stessi a lasciare un segno nel tempo e a fare le nostre scelte.

Hai fotografato San Paolo in due modi. In una occasione hai mostrato la città, in un’altra occasione, nel lavoro Lacuna e Equilibrio, hai fotografato la città senza fotografarla, hai allestito un set in casa tua e hai posizionato oggetti di uso comune. Questa era per te San Paolo. Il racconto ha più forza se non ricorre alla documentazione o alla descrizione?

A me interessa il presente come pretesto per andare a scavare fino a dove si innesta la più profonda delle sue radici. Nel 2013 ho realizzato a San Paolo un lavoro alla , nel quale leggevo la città attraverso l’architettura. È un lavoro che io considero uno studio, un passaggio. In Lacuna e Equilibrio, che è un lavoro dell’anno scorso, c’è stata invece un’immersione nella città totale, intima, inconscia, una cosa che nemmeno io sono ancora riuscito a decifrare fino in fondo. Ho messo su un piano neutro le macerie degli edifici che San Paolo demolisce e ricostruisce alla velocità della luce, manifestazione del rapporto patologico che la nostra epoca ha con il tempo.

A me interessa il presente come pretesto per andare a scavare fino a dove si innesta la più profonda delle sue radici.

A quale patologia ti hanno fatto pensare i progettisti di San Paolo?

Nelle città delle economie emergenti le dinamiche del mercato assumono dimensioni violente. Un edificio viene costruito per esercitare una funzione immediata. Il rapporto patologico con il tempo dell’epoca contemporanea è che noi eternizziamo il presente, tutto ciò che costruiamo è usa e getta, vive ed è funzionale solo nel presente, senza alcuna considerazione e cautela riguardo la sua genesi o il suo destino.

Tutto questo lo hai mostrato ricorrendo ai simboli e alla decontestualizzazione.

È ancora il principio delle pietre focaie che cozzano e scatenano la scintilla. Questa volta ho usato come referenza relativa all’Italia, alla mia cultura, , che con i suoi oggetti di poca importanza è riuscito a dare alle opere una dimensione metafisica, una dimensione eterna. Usando un set e oggetti di un rango ancora più basso di quelli di Morandi, le macerie, ho ragionato sulla dinamica della distruzione e della costruzione di edifici. Credo sia un lavoro importante perché racconta come di fronte allo scenario di rovine che spesso rimane dopo il passaggio di questo uragano della modernità, è ancora possibile ricostruire una possibile armonia, un possibile equilibrio che nasce da quella che era una lacuna.

Da qui il titolo del progettto, Lacuna e Equilibrio.

Esatto. Si tratta della capacità umana di ricostruire un senso, una possibile via d’uscita, anche di fronte al deserto. Ed è in questo senso, forse, che un’immagine che non si limita a documentare può costituire una forza più ampia. Oltre a riferirsi al presente, può indicare una possibile direzione per il futuro.

Si tratta della capacità umana di ricostruire un senso, una possibile via d’uscita, anche di fronte al deserto.

Con questo tipo di lavoro così simbolico racconti un presente più ampio, che può interessare anche altre realtà. Probabilmente questo risultato non lo avresti ottenuto con la pura documentazione.

Questo è ancora un altro punto di vista. Quando si astrae diventano poi possibili diversi livelli di lettura e sicuramente quello che dici tu è uno di questi. Certo, uno dei pericoli quando cominci a lavorare in maniera più concettuale è che un’immagine rimanga inaccessibile. È una sfida, per me è importante che ci sia sempre una via di accesso alla soluzione dell’enigma, una comprensione da parte del pubblico del mio lavoro.

San Paolo è stata oggetto anche di un tuo lavoro sulle migrazioni in cui non mostri mai l’essere umano. Perché hai scelto di non inserire le persone?

In quel progetto sono partito da un tema di estrema attualità come la migrazione, ma non l’ho mai mostrato esplicitamente. Deve essere uno dei livelli di lettura a cui si arriva. Oggi il pericolo è che se tu parli in maniera diretta di un tema di attualità la gente scappa. Invece, mi piacerebbe arrivare come un profumo a risvegliare queste note del nostro presente. Il lavoro si chiama Os Argonautas, ovvero Gli Argonauti, coloro che guidati da Giasone partirono alla ricerca del Vello d’Oro. Come vedi, si tratta sempre di andare a cercare l’ultima radice. I protagonisti dell’indagine sono i contadini e i piccoli artigiani del Veneto dell’Ottocento, quelli che poi , riferendosi però al Piemonte, avrebbe chiamato i vinti. Ed ecco perché non mostro mai l’uomo. È una storia, quella dei migranti, dei vinti, completamente trascurata dalla storia celebrativa. È anche una storia in costante demolizione, soprattutto a San Paolo dove tutti gli edifici in cui hanno vissuto questi migranti sono stati ridotti in poltiglia come quelle macerie di Lacuna e Equilibrio. Oltre a questo c’è anche un’epoca, quella in cui viviamo, che non ha memoria. Per questo mi sono mosso attraverso quelle tracce che emergono dalle storie delle persone che ho incontrato, attraverso gli oggetti che ho trovato nei mercatini dell’antiquariato. Quello che mi interessava era entrare in quelle stanze dove la memoria si mescola con il sogno, una memoria affettiva che spero possa risuonare con la nostra.

È una storia, quella dei migranti, dei vinti, completamente trascurata dalla storia celebrativa. È anche una storia in costante demolizione, soprattutto a San Paolo dove tutti gli edifici in cui hanno vissuto questi migranti sono stati ridotti in poltiglia come quelle macerie di Lacuna e Equilibrio.

Ogni tua risposta ha spunti storici, visivi, legati al viaggio, all’attualità, alla condizione umana. Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

Da sempre sono stato spinto, anche per contingenze della vita, a cercare delle risposte, a vivere esperienze diverse, a far sorgere nuove domande. Questa mia ricerca umanistica si è anche riflettuta nella mia formazione, mi sono laureato prima in letteratura, poi in relazioni internazionali e infine ho preso il master in psicologia.

La fotografia è una sintesi di tutte queste tue curiosità, di queste forze?

Una cosa che avrei sempre voluto fare è insegnare, come modo di comunicazione e di possibile contaminazione di quello che mi stava intorno. Poi ho scoperto che la fotografia poteva veramente sintetizzare, come dici tu, tutte queste cose, in quanto è un mezzo di comunicazione molto efficace e forse anche più efficace della parola. Però mi piacerebbe riuscire a generare, attraverso la fotografia, delle ricadute che non si esauriscano nella dinamica atelier-galleria oppure fiera-collezione privata. Per me questa è una questione ancora apertissima, su questo aspetto sto vivendo un momento di conflitto molto creativo.

Pensi che le troppe immagini da cui siamo circondati abbiano un peso specifico ormai molto basso, oppure continuano ad essere efficaci?

Quando ho finito di studiare ero saturo di parole e pensavo che fossimo circondati da troppe parole, che le immagini fossero più incisive e sintetiche. Ora lavoro nel mondo delle immagini e mi rendo conto anche di quanto siamo saturi di fotografie. La mia strategia per poter comunicare è quella del silenzio. Nelle mie fotografie c’è sempre una sensazione legata al vuoto, al silenzio.

Ma fai molta attenzione alle parole dei tuoi titoli.

Ho sempre pensato di non essere bravo a nominare le serie, ed è una cosa a cui dedico un sacco di tempo. Cerco di fare in modo che i titoli siano evocativi e mai descrittivi. C’è una mia foto che sembra un castello di carte e che in realtà è un castello di antiche foto di famiglia, il cui titolo è Carvalho, in portoghese quercia, un titolo in contrasto con la fragilità della memoria che è comunicata dalla forma di questo castello di fotografie. C’è sempre il tentativo di evocare senza dire troppo.

Nel tuo lavoro Cattedrali Rurali, che significato ha il termine Cattedrali?

Cattedrali riguarda la sfera del sacro. Il mio lavoro va nella direzione di conferire un valore sacrale a ciò che è stato escluso dalla storia celebrativa capitalistica, che è stata scritta dai vincitori. Le cattedrali rurali sono case coloniche dove vivevano queste famiglie di contadini. Per me simboleggiano il vincolo sacro tra l’uomo e la terra che si è realizzato fino alla metà dell’Ottocento e che oggi va assolutamente riattivato.

Le cattedrali rurali sono case coloniche dove vivevano queste famiglie di contadini. Per me simboleggiano il vincolo sacro tra l’uomo e la terra.

Cattedrali Rurali è nato dal tuo territorio, così come la tua ricerca sui ritratti è partita da un autoritratto. I tuoi progetti nascono da ciò che ti circonda e che più conosci?

Questa cosa è vera per quella parte di me che esplora il rapporto con le radici. Però, poi, amo anche il salto nel vuoto, come è stato per esempio andare a San Paolo. Mi piace costruire una sintesi tra ciò che è nuovo ed inesplorato e ciò che fa parte di una storia, di una tradizione, di una radice.

Forse doveva essere la prima domanda: come mai San Paolo?

All’università feci la mia prima tesi sulla comparazione tra due filosofi, Herman Keyserling e José Enrique Rodó. Herman Keyserling, europeo, cercava la medicina dell’Europa malata nell’America del Sud, e ai primi del Novecento partì per un viaggio pensando che lì ci fosse davvero la soluzione ad un’Europa troppo intellettualizzata. José Enrique Rodó, filosofo uruguaiano, cercava in Europa la medicina per la sua America del Sud malata. Insomma, già durante gli studi sentivo che nell’interazione tra questi due mondi c’era una corrente elettrica davvero contemporanea.


Fonte: https://www.maledettifotografi.it/fotografi/feed/


Tagcloud:

Roberto Polillo: fotografo il mondo, tra caso e sogno

Filippo La Mantia: la sofferenza, per me, non si fotografa