Fino al 22 luglio 2018, Michael Wolf è protagonista alla Fondazione Stelline (Milano) con “Life in Cities”, la prima retrospettiva in Italia a lui dedicata. .
, ho letto che sei un grande collezionista di oggetti. Per questo i tuoi progetti sono così seriali?
È vero. Quando ero bambino mia mamma mi portava al mercato, acquistavo una grande quantità di giocattoli economici, mi piaceva collezionarli. La fotografia è sicuramente una forma di collezionismo. Nelle mie serie fotografiche non lavoro mai su uno o due soggetti. È facile fotografare una sedia, può essere un caso. Ma se fotografi cento sedie, allora si crea un significato, e questo va al di là del caso. Fotografare l’architettura, gli oggetti, i giocattoli, le persone è la mia forma di collezionismo. Quando ho fotografato per la prima volta i giocattoli, ne avevo circa seicento. Li ho messi sul pavimento, occupavano un’area molto grande ma non ero ancora soddisfatto, così ho deciso di metterli su una parete, e tutto ha avuto un altro potere. È così che è nata quella installazione.
È facile fotografare una sedia, può essere un caso. Ma se fotografi cento sedie, allora si crea un significato, e questo va al di là del caso.
Questa idea di serialità è in progress, o quando inizi un progetto dici “non fotograferò una sedia, farò una serie di sedie”?
Di solito è tutto in progress. Cerco sempre di fare in modo che la mia mente segua la mia pancia. Tutti i miei soggetti hanno un interesse visuale per me. Scatto le mie foto, poi la sera torno a casa, scarico i file sul mio computer e spesso realizzo improvvisamente di avere una serie di fotografie su un determinato soggetto. Da qui, inizio ad organizzare il lavoro.
Questo metodo, così libero, è iniziato quando hai lasciato il mondo editoriale, il fotogiornalismo, ed hai iniziato a confrontarti con il mercato dell’arte?
Il fotogiornalismo è stata una bellissima professione, l’ho amata molto. Oggi meno, perché non ci sono più i budget per riuscire a fare un buon lavoro. Ma al di là dei budget, e quindi della possibilità di fare veri reportage, quello che mi limitava del fotogiornalismo era la bidimensione. Le fotografie vengono scattate e vengono stampate su una pagina. Potevo avere anche sei doppie pagine su Stern, ma restava un lavoro bidimensionale. Se sei libero, se sei un cosiddetto artista, puoi fare tutto ciò che vuoi, puoi muoverti in ogni direzione. Puoi usare la pellicola, gli oggetti, le installazioni. Hai infinite possibilità di esprimere te stesso. E questo mi ha liberato molto.
Nel mercato dell’arte, ti senti realmente libero?
Sì, certo, mi sento libero. Non tutti sono liberi, ma io non faccio mai nulla che mi non permetta di lavorare nella libertà. Sono molto fortunato, ho ottime gallerie che mi rappresentano.
Questo significa avere in mano e controllare ogni fase del processo, dalla fotografia, al libro, all’installazione?
No, il segreto è trovare ottimi collaboratori.
Insomma, sei un artista che crede in una squadra di lavoro.
Naturalmente. Ci sono le mie gallerie, i miei curatori. Il mio atteggiamento è molto aperto rispetto ai collaboratori. Sono sempre molto curioso delle idee degli altri.
Che cosa ti affascina di una città?
Quando sono andato per la prima volta ad Hong Kong, non avevo mai pensato di andarci prima, tanto meno di trasferirmi. Mi ha sconvolto sia visivamente, sia perché non mi dava modo di annoiarmi. È una città che cambia continuamente, cambiano le luci, cambiano gli angoli. Er come essere ubriachi di questa città.
Hong Kong mi ha sconvolto sia visivamente, sia perché non mi dava modo di annoiarmi.
Ho letto che quando ti sei trasferito dall’Asia a Parigi, l’hai trovata molto noiosa da fotografare. Quindi: Hong Kong o Parigi?
Naturalmente, Hong Kong. Parigi è stato un compromesso, mia moglie era stanca di Hong Kong. Così abbiamo iniziato a vivere un mese a Parigi ed un mese ad Hong Kong. A Parigi è stato molto difficile trovare qualcosa di interessante da fotografare, non trovavo quell’eccitazione visiva che mi dava Hong Kong. Era come un set cinematografico, tutto era già stato visto. Così ho iniziato ad usare Google Street View. Anziché camminare per la città, ho cercato immagini sullo schermo e ho scoperto infinite possibilità. Soprattutto, ho scoperto che potevo tagliare le immagini e focalizzarmi sui minimi dettagli di ogni immagine.
È questo processo di taglio che ti ha permesso di creare immagini astratte?
Esatto. Sono partito da immagini già piccole, file da 50 o 60Kb, una materia prima minuscola. E poi le ho ingrandite fino a 3 o 4 metri di base. In questo modo, ho ottenuto immagini pixelate, un risultato astratto..
Il fatto che nel lavoro hai tagliato il cielo e l’orizzonte ha reso queste immagini universali, le hai fatte uscire dal loro contesto?
Sì, ho creato delle metafore. All’inizio di , nel 2003, fotografavo gli edifici nella loro interezza, ma non avevano forza. Ho capito che non mi interessava rappresentare un particolare edificio, ma mi interessava la metafora della densità, una metafora che ha a che fare più con il sociale che con l’architettura, per cui ho eliminato il contesto.
Ho capito che non mi interessava rappresentare un particolare edificio, ma mi interessava la metafora della densità, una metafora che ha a che fare più con il sociale che con l’architettura.
E è un lavoro su…
Anche questa è una metafora della Megacity. Se parli con gli abitanti di Tokyo o di Hong Kong, amano questa città. E se chiedi il motivo, ti rispondono che tutto è comodo, tutto funziona, tutto è veloce ed accessibile. Nessuno di loro pensa ai problemi di questa vita. Sono problemi che hanno tutte le grandi città, Londra, Parigi, Milano. è un lavoro molto critico su questo tipo di vita, cerco di mostrare che cosa significa vivere in questi luoghi, dove ogni giorno le persone trascorrono ore in queste condizioni. Penso che la vita possa essere diversa.
Pensi che le tue fotografie siano un continuo viaggio tra la dimensione pubblica e quella privata?
Entrambi i miei genitori erano di sinistra, sono sempre stati interessati ai diritti umani, alle condizioni di vita. Il denaro non è mai stato un argomento di conversazione nella mia famiglia. Sono quindi cresciuto con una forte attenzione alla vita dell’essere umano, alla condizione umana. Mi sono sempre chiesto dove le persone trovano l’ottimismo, come possono trovare positiva la vita anche quando scendono un chilometro sotto terra per lavorare otto ore in una miniera di carbone. Questo è stato il lavoro della mia tesi di laurea, e anche dopo tutto è sempre stato incentrato sulla condizione umana.
Le tue fotografie contengono una dichiarazione politica?
Se guardi il lavoro in generale, ogni tema che ho trattato esprime una forma di critica rispetto alla condizione dell’uomo. Ho terminato i miei studi nel 1972, ho avuto una lunga carriera nel fotogiornalismo, ho fatto moltissime cose, non ho mai fatto advertising. Semplicemente, non riesco ad immaginarmi a fotografare per le pubblicità dei cosmetici, delle sigarette o di questo genere di prodotti. Sono sempre stato interessato a descrivere la condizione delle persone in situazioni difficili, come riescono a sopravvivere, come riescono a rendere minimamente vivibile l’ambiente intorno a loro.
Sono sempre stato interessato a descrivere la condizione delle persone in situazioni difficili, come riescono a sopravvivere, come riescono a rendere minimamente vivibile l’ambiente intorno a loro.
Martin Parr ha inserito il tuo libro tra i libri più influenti del decennio. Che cosa significa per te essere influente?
Non ci ho mai pensato. Ho semplicemente fatto alcune cose. Non avrei mai immaginato l’influenza che ha avuto Tokyo Compression sulle persone che, non tanto hanno guardato queste fotografie, ma che hanno sentito qualcosa vedendo queste immagini. Ha avuto un’influenza molto profonda. Ma non sono entrato dentro quella metropolitana per ottenere questo risultato, è semplicemente successo. Quelle fotografie, così ravvicinate, così dense e così tagliate, avevano una loro forza.
Ci sono dettagli, nelle tue fotografie, che scopri tempo dopo averle scattate?
Su Tokyo Compression ho fatto quattro libri. Ogni libro non era sufficiente, volevo rivederlo, rieditarlo, aggiungere qualcosa di nuovo, di più estremo. Ho un archivio di seimila immagini su Tokyo Compression e, quando guardo i file, anni dopo, scopro sempre qualcosa che avevo perso le volte precedenti. Nessun libro è identico, ci sono sempre variazioni.
È una buona notizia per i tuoi collezionisti.
Sicuramente.
Anche qui hai lavorato molto sui tagli, sulla composizione perfetta.
La composizione è fondamentale in questi lavori, ma è sempre stata istintiva. Sono cresciuto in una famiglia di artisti, per cui la composizione visuale ha sempre fatto parte della mia vita, fin da quando ero piccolo sono sempre andato nei musei, l’ho interiorizzata presto.
Le tue fotografie parlano della nostra società. Hai mai pensato al fatto che le tue foto possano essere viste tra venticinque o cinquant’anni?
Naturalmente. Senza le fotografie di Atget non potremmo conoscere la vita a Parigi dell’inizio del ‘900. La fotografia è l’unico medium che possa realmente documentare, la pittura non può farlo, la scrittura non può farlo. La fotografia può essere un meraviglioso registratore. Molti angoli di Hong Kong che ho fotografato, già oggi non esistono più. Penso che il sessanta per cento delle piccole case che ho fotografato per il progetto 100×100, oggi non esiste più. Amo guardare le fotografie antiche, sono documenti incredibili. Ma amo guardare anche Google Street View, che ha documentato ogni singola via di Parigi e del mondo a 360 gradi, un lavoro da cui possiamo ricavare informazioni che altrimenti andrebbero perse.
La fotografia è l’unico medium che possa realmente documentare. Molti angoli di Hong Kong che ho fotografato, già oggi non esistono più.
Ad Hong Kong sono stati molto critici quando ha stampato in grande formato i dettagli di vita delle persone all’interno delle abitazioni. Quale è la tua idea di privacy?
La privacy è oggi un argomento di forte attualità, vediamo che cosa è successo con Facebook, e penso che in qualche misura sia giustificata. Il lavoro Window Watching ha provocato polemiche che non avrei immaginato. Ad Hong Kong tu sei circondato da vetri e finestre, puoi guardare all’interno di ogni singola abitazione. Ero semplicemente affascinato da tutto questo. Le fotografie rappresentavano persone in atteggiamenti quotidiani, mentre cucinavano, mentre guardavano la televisione, per nulla intimi. Quando ho visto che alcune persone si erano arrabbiate, ho interrotto immediatamente il progetto. Ho troppa fiducia nelle persone di Hong Kong e non ho voluto rovinare questo livello di fiducia con quella popolazione. Se le persone reagiscono, devo rispettare la loro posizione.
Ma tu non vuoi fotografare persone specifiche, non vuoi dar loro un nome ed un cognome, la tua è una rappresentazione astratta degli individui. In Tokyo Compression hai avuto gli stessi problemi?
Durante le presentazioni di Tokyo Compression, una delle prime domande che mi veniva fatta era se avessi chiesto il permesso a quelle persone, se avessi mai chiesto le liberatorie. Nella mia idea, quelle fotografie riguardavano degli individui in senso metaforico, ed in quel caso, a differenza di Window Watching, la metafora era così importante che ho corso il rischio di offendere qualche persona. Portare a termine il progetto era troppo importante.