Vederci lungo, stanare il nuovo, mettere a fuoco il proprio tempo. Croce e delizia di una vita col turbo. È quella del 46enne Big Fish, produttore e dj, talent scout di successo, spina dorsale dell’hip hop italiano. Negli anni ’90 i dischi cult con i Sottotono, poi il percorso da solista, e il super album Robe Grosse (2005) come nuova bandiera. Controverso quando decide di lavorare per Young Signorino o Nino D’Angelo, infallibile nei dischi degli amici Jake La Furia, Emis Killa o Gué Pequeno. C’è la sua mano dietro alcuni dei più importanti successi di Fabri Fibra o in piccoli gioielli come Will We Be Strangers di Elisa. In queste settimane a X Factor segue (e produce) la squadra delle under donne, assieme a Manuel Agnelli. Per il dj superstar Diplo ha pubblicato alcuni importanti remix ed EP. Sulla scelta di fare dance per l’America dice: “Quando produco per me, voglio risultare spiazzante”.
Anche vederti ad X Factor un po’ di sorpresa coglie.
“Manuel mi ha convinto spiegandomi quale fosse il suo progetto, ossia mettere la musica davanti a tutto. È una esperienza impegnativa, ma stimolante, alla fine mi sono ritrovato nelle sue parole. Lavoriamo con tre ragazze di talento, che ascoltano i consigli, e stanno dimostrando di avere le carte per un futuro roseo, a prescindere dall’esito della gara. Luna rappa come forse nessun’altra ragazza in Italia, e ha solo 16 anni. Sherol ha una voce e un’intensità espressiva pazzesche. Martina è una piccola donna, con una personalità già forte. Cerchiamo di farle crescere artisticamente, alternando brani nelle loro corde ad altri che le stimolino ad uscire dalla loro comfort zone”.
Ai talent e a Sanremo la discografia italiana è legata a doppio filo.
“Penso ne sia parecchio schiava. Nonostante la discografia sia stata in generale rivitalizzata da Spotify, non siamo capaci di investire su un disco da zero, e preferiamo dare gas a prodotti che già funzionano. I talent sono soprattutto un format televisivo d’intrattenimento, che alle major fa gola perché consente loro di lavorare su progetti che di colpo si ritrovano ad avere grande visibilità, anche se agli inizi. Chi ha da perdere sono gli artisti, che rischiano di bruciarsi una carriera se non stanno attenti a come gestiscono il loro percorso”.
Hai detto: “Con Doner Music voglio aiutare dei ragazzi che da soli sarebbero rovinati dalle case discografiche”.
“Un ragazzo di 18 anni deve sentirsi libero di esprimere la propria arte. Il meccanismo delle major è troppo grosso da capire per chi comincia, e poco efficace all’inizio di una carriera. Avrebbe senso nel caso uno ambisca a diventare il nuovo Ramazzotti. Per un giovane rapper serve soprattutto la consapevolezza di dover partire in maniera artigianale, per poi arrivare a fare qualcosa di grosso. Con Doner Music capita che si lavori anche con delle major, ma solo con licenze che ci lasciano il pieno controllo della parte creativa e strategica sull’artista. Rispetto agli anni ’90, credo che ci sia una mentalità più aperta nelle major, anche se le visioni più contemporanee e innovative partono spesso dalle indipendenti”.
L’appiattimento creativo a cosa è dovuto?
“I ragazzini di oggi ascoltano Sfera Ebbasta e lo vogliono rifare, dovrebbero porsi qualche domanda sulle sue origini. Sono la copia della copia, in quanto arrivano tardi nel proporre qualcosa che già esiste. Quando ho cominciato a creare basi rap, nel 1988, compravo i dischi jazz e funk usati, perché si attingeva a quei generi. Pur non essendo un cultore di quel mondo, i nomi degli artisti li ricordo ancora, perché passavo intere notti all’ascolto, cercando di capire da dove arrivassero quei campioni, e di rubare qualcosa se possibile. In Italia il lavoro di ricerca è scomparso, in America resta la regola”.
Sarà un altro anno in sordina o nella dance arriva la scossa?
“La situazione per questo genere è disastrosa. Ovunque ormai ascoltano la trap. È paragonabile alla dance di qualche anno fa, ne ha preso il posto. I teenager vanno in discoteca per ballare la trap italiana, come succedeva con la dance in italiano degli anni 2000. Idem per gli altri Paesi, con le scene trap locali. Cambia il suono, ma il concetto è lo stesso: è musica che si canta e si balla nei club, al posto del dj sul palco ci sono i rapper, e si parla di testi e melodie di impatto facile. Sarà un caso che la trap italiana sia entrata nei club come il rap italiano negli anni non era riuscito mai a fare (sorride, ndr)?”.
L’ossessione del reggaeton sembra protrarsi all’infinito.
“Purtroppo questa roba bruttissima del pezzo estivo non accenna a finire. Anche se la musica non ha stagioni, la gente e i discografici sono molto legati a questo rito. L’anno prossimo ci sarà sempre il reggaeton, o una rielaborazione un po’ più fresca di esso, il trend a morire è duro. In generale, le influenze del mondo latino nella musica urban sono destinate a farsi sentire ancora. Vedi l’ascesa della latin trap e di artisti come Bad Bunny. Mi piacerebbe che il prossimo sound del mondo latino/sudamericano ad essere sdoganato su larga scala fosse il baile funk, di cui sono un fan. Qualche segnale c’è stato, vedi Jason Derulo che canta Bum Bum Tam Tam. Ma in Italia siamo ancora lontanissimi”.
Come leggi la svolta pop house di colossi come Diplo, David Guetta o Calvin Harris? Soliti corsi e ricorsi o questa marcia indietro è anche un modo per pararsi il c***?
“Guetta che da un lato fa pop e dall’altro house col nome Jack Back è una conseguenza del declino dell’EDM, che da un lato ha portato all’evoluzione della dance come Spotify music, con un timbro che sarà sempre più pop, dall’altro alla ricerca di stili orientati ai locali ma più credibili rispetto all’EDM da giostre. Di questi grossi nomi si sente parlare molto meno, se ci fai caso. I bravi dj sono diventati dei produttori musicali e dei gran conoscitori di musica. Gli altri, che copiavano i grossi traendone qualche vantaggio, continuano ad inseguire il sogno dell’EDM, ormai molta e sepolta, o più probabilmente stanno cercando o facendo già un altro lavoro”.
Qual è il tuo metro personale per riconoscere un artista valente?
“Il talento resta la componente che mi fa reputare un artista interessante a prima vista. Il decidere se seguirlo o meno arriva in una seconda fase, dopo che l’ho conosciuto di persona. Siamo in un’epoca in cui, per far strada, l’impegno, la dedizione, l’intelligenza e la visione artistica hanno più importanza del talento in senso stretto”.
Capita che arrivino proposte sconclusionate?
“Capita, certo”.
E se l’offerta economica è importante?
“Non ci lavoro in ogni caso (sorride, ndr)”.
Cosa non tolleri nell’atteggiamento di certi personaggi?
“Non sopporto quando mi chiamano per fare il produttore artistico e pensano di avere la verità in tasca sul percorso, senza ascoltare la mia visione. Quando succede, faccio notare che hanno sbagliato persona, e che non hanno bisogno di un produttore, ma di un beatmaker. Oggi sono prima di tutto un produttore artistico, e non è ciò che mi aspettavo quando ero piccolo: ho iniziato facendo il dj, ho continuato facendo il beatmaker, fino a diventare ciò che sono”.
Tra i tanti con cui hai lavorato quali sono gli artisti che consideri dei punti fermi?
“Oggi con Jake La Furia si sta creando una bella intesa, con lui sto per lanciare una nuova etichetta, e produzioni di generi diversi arriveranno nei prossimi mesi. Guardando al passato, ho un ricordo bellissimo dei Sottotono, con Tormento. Da lì è partita la mia carriera, e una parte importante del rap in Italia. Con Fabri Fibra, nel 2006, abbiamo dato una scossa al mainstream italiano. Ed oltre a fare figate, ai tempi di Tradimento mi sono divertito davvero un sacco. Direi che ogni artista con cui ho avuto un rapporto stretto di collaborazione ha lasciato un forte segno”.
Il ricordo più bello degli anni con Tormento?
“Un viaggio Napoli-Roma, alle 2 di mattina, con Wyclef Jean, per andare a suonare insieme in un locale a Roma, dopo aver vinto a Napoli il Festivalbar. Siamo stati i primi in Italia a portare delle canzoni vere e proprie con un sound americano credibile per quel periodo. Mi sento ancora con Tormento. Ma non credo che la storia dei Sottotono abbia bisogno di un revival”.
di Leonardo Filomeno
@l_filomeno