Confessioni di Daniele Davoli: “Ride On Time fu il frutto della mia incoscienza di 25enne. Uno sbaglio, in altre parole. Non puoi prendere la voce di un altro brano, camuffarla e pubblicare il pezzo come se fosse tuo. Lo feci per rompere i coglioni al celebre dj Chicco Secci, diventato poi uno dei miei più grandi amici”, ride oggi. Al telefono da Londra, ricostruisce la storia leggendaria dei suoi Black Box e dell’esplosivo Ride On Time, classico house tra i più innovativi di sempre, destinato a fare ballare ancora tante generazioni. Lucido su quei giorni e ancor più sul presente, racconta dell’album dei record Dreamland, di grazie e disgrazie, di posti speciali e grandi rivincite.
Quella sull’ex rivale Secci resta memorabile.
“Nel ’88 lavoravo in un locale di Reggio Emilia. Arrivò Chicco ed iniziò a fare il fenomeno. Lavorava a Ibiza, era circondato da modelle e Mercedes. Da poveraccio quale ero, gli dichiarai guerra, in quanto anche lui faceva delle produzioni, senz’altro migliori delle mie a livello qualitativo, avendo a disposizione ogni mezzo. Fare dischi originali significava cercare strade alternative alle sue. Ride On Time fu un modo per dire: Dovete ascoltare anche me. Mi sarei accontentato di vendere 1500 copie”.
Andò un po’ diversamente, con Ibiza grande complice.
“Sull’isola c’era un negozio di dischi, M15, che si riforniva dalla distribuzione italiana Discomagic. Era strategico per la diffusione delle produzioni made in Italy, perciò gliele regalavano. Alfredo, dj dell’Amnesia, comprò una copia di Ride On Time e la suonò. Quella notte nella terrazza dell’Amnesia c’erano Danny Rampling e Paul Oakenfold. Non capivano di chi fossero quei brani, tra cui il mio. Alfredo si limitò a svelare la provenienza. Intanto a Ibiza il disco era ormai esploso. Tornati in Inghilterra, Danny e Paul fecero un salto in Italia, per scovare quelle produzioni. Fu lo stesso Oakenfold, 2 anni più tardi, a rivelarmi di aver acquistato, solo del nostro singolo, ben 10 copie. E di essersi pagato le vacanze rivendendo quei vinili all’asta a Londra, dove a breve sarebbe arrivata l’incoronazione”.
La solita Italia era già piuttosto distratta.
“Ride On Time decollò in Inghilterra a settembre ’89 e rimase primo per 6 settimane, in Italia arrivò a fine anno. Albertino muoveva i primi passi, non era ancora così importante. Il primo a passarlo da voi fu Amadeus, su Deejay, quando era già un successo Oltralpe. Lo annunciò così: Un simpaticissimo amico di Reggio Emilia mi ha regalato lo scorso luglio all’Aquafan un promo di questo brano ed ora me lo ritrovo primo in Inghilterra. Complimenti!. Da lì al palco di Top Of The Pops il passo sarebbe stato breve”.
Cosa hai capito della macchina del successo?
“Ho pagato sulla mia pelle errori che nel Belpaese venivano considerati la prassi. Come piazzare una ragazza immagine sulle copertine. In Italia non avevamo capito bene come funzionasse l’industria della musica, lavorare all’acqua di rose era una conseguenza. In Inghilterra e in America non esistevano frontwoman bellocce”.
Una scelta che vi portò dritti in tribunale. Con il bis.
“La causa che riguardò Loleatta Holloway, la cui voce fu campionata in Ride On Time, fu un falso il bilancio. L’autorizzazione per l’utilizzo c’era, peccato che la sua casa discografica, Salsoul Records, non l’avesse pagata. Si arrabbiò molto, anche perché accostammo la sua voce all’immagine di un’altra persona, e di questo le do atto. Il bis fu con la cantante americana Marta Wash, voce del nostro album Dreamland. Stabilì che dovesse lavorare in incognito in quanto legata ad una major, e riportammo ciò in un contratto. Dopo il successo di Dreamland, oltre 60 settimane in classifica in America, e annullati gli accordi che aveva con la major in questione, si sentì in diritto di farci causa. Dovette ritirarla in quanto le carte parlavano chiaro. Il casino le servì a farsi pubblicità. Non me lo spiego diversamente, anche perché le proponemmo subito di entrare a far parte del gruppo…”.
Ma?
“Rifiutò sdegnata. Bisogna dire che pure dopo il successo di Ride On Time il nostro studio di Reggio Emilia versava in condizioni fatiscenti. C’era da vergognarsi ad entrare. L’equipaggiamento faceva ridere, molta roba era affiatata, il microfono preso in prestito. Non avevamo un soldo. Andai a prendere la Wash all’aeroporto, a Malpensa, con una Citroën scassata che avevo da 20 anni, nelle portiere c’erano dei buchi enormi. Sicuramente pensò: Per fortuna che i soldi li ho avuti in anticipo. Le spiegammo del successo inglese di Ride On Time, ma non capiva, in quanto in America non era stata pubblicata per i problemi citati prima, e internet non esisteva. Ci trattò come servi della gleba”.
Negli anni ’90 c’erano produttori che giravano col Lamborghini, grazie a quei dischi.
“Un appartamento l’ho comperato solo nel ’95. I soldi li abbiamo recuperati col lanternino. Non abbiamo raccolto manco la metà. Stimare quanto Ride On Time abbia venduto è impossibile, tanti sono i soldi che ci hanno rubato su copie smerciate a nostra insaputa. Quattro anni fa abbiamo preso in mano il catalogo e sono ricominciati i guadagni. Sono stato gabbato dai discografici. Nella discografia rubano tutti, non è solo una prerogativa delle etichette indipendenti, anzi”.
Everybody Everybody resta il disco del cuore.
“Un giro di boa. Prima raccattavamo campioni vocali qua e là. Gli altri rubavano una pezzettino, noi cantati interi (ride, ndr). Dopo il successo di Ride On Time, con Mirco Limoni e Valerio Semplici, ci guardammo negli occhi. Adesso cosa facciamo?, dissi. Facciamo come i grandi produttori, ci sediamo al pianoforte e scriviamo le canzoni, rispose Mirco. Everbody Everybody, primo disco di quel ciclo, ci rese delle star in America”.
Lucio Dalla era come un fratello.
“Col remix di Attenti al Lupo mi tolsi la soddisfazione di arrivare al numero 1 in Italia. Ho vinto decine di dischi di platino in tutto il mondo con i Black Box, ma in Italia mai. Solo I Don’t Know Anybody Else arrivo secondo. È la realtà (sorride amaro, ndr). Per vincere il disco di platino nel Belpaese ho dovuto aspettare che uscisse Time Square – Follow the Sun, nostra famosa produzione del 2014, sincronizzata in uno spot”.
Gli amici dell’epoca ci sono ancora?
“C’è Secci, anche se lui vive a Miami ed io a Londra. Con Oakenfold ci sentiamo una volta a settimana. Con Benny Benassi siamo compaesani, ci sentiamo un giorno sì e l’altro pure. Lui ed il cugino Alle hanno sempre avuto una visione globale. Mi confidava, già negli anni ’90, quando veniva a trovarmi ad Ibiza, di non poterne più di suonare in Italia. Ci ha provato provato e riprovato e alla fine ce l’ha fatta”.
Calerà il revival anni ’90?
“Faccio parte del revival, mi dà da mangiare. Ma lo detesto. È sempre stessa storia, raccontata 300mila volte. Ha contagiato anche luoghi che un tempo erano l’emblema dell’innovazione. Ho lavorato tanti anni a Ibiza in locali come Pacha, Amnesia e Privilege (per Manumussion, ndr). Ci torno spesso, l’ultima volta a giugno per la super festa Children of the 80s, come Black Box, all’Hard Rock Hotel. Un successone. Però il revival era ovunque, non solo lì. Oggi Ibiza vive di passato”.
Da Dreamland a Positive Vibration passarono 5 anni. Tanti.
“Dopo il successo Ride On Time, cercarono di capire cosa ci fosse di buono nello scatolone italiano e trovarono gli FPI Project, i Cappella, i 49ers e Jinny. Per quanto riguarda la Spaghetti House, il primo ed in assoluto il più grosso successo resta il nostro. Non c’era tuttavia una rivalità. Ce n’era per tutti. Dopo Positive Virbration, del ’95, abbiamo perso il treno. L’album omonimo che la conteneva aveva uno stile che il mondo aveva letteralmente consumato. In più c’era la trance, che incalzava forte”.
Nel bene o nel male l’Italia galoppava.
“Non seguivo. Lavoravo già tantissimo in Inghilterra. Gli ultimi veri successi dance italiani nel mondo restano quelli di Alex Party, Livin’ Joy e della Media Records. Eiffel 65, DB Boulevard o Moony? Botte di culo autentiche. L’Italia resta il paese della musica italiana, quella inglese è sempre arrivata di riflesso. Vino, formaggio, pasta e moda, queste le vostre eccellenze. Credo che Benassi sia stato l’iniziatore dell’EDM, è nata con lui, solo che all’epoca faceva un genere ribattezzato tech house”.
Tanti big stanno tornando alla house. Rincuorante, ma anche tanto triste.
“La musica di tendenza oggi non fa tendenza, Pete Tong è rimasto l’unico a proporla, e nessuno più lo imita. La house è la stessa che si faceva 30 anni fa. Idem per l’hip hop e per il rock. Nelle classifiche inglesi trovi pop e r&b, la dance è morta. Spinnin’ Records, etichetta simbolo dell’EDM, è non pervenuta. La musica che pubblica è terribile. Hanno venduto tutto alla Warner e i soci di partenza contano ancora i soldi guadagnati durante gli anni della bolla speculativa”.
In attesa di un nuovo Benassi, si pensa poco e si ricicla tutto.
“Mi reputo un privilegiato ad aver vissuto le rivoluzioni del punk e della house. Spero di vederne un’altra prima di morire. Viviamo una controrivoluzione. Prodigy, Basement Jaxx e Groove Armada sono come Bobby Solo, vai a un loro concerto perché ti piace quello che hanno fatto in passato. I Coldplay non se li ricorderà più nessuno. Quando esce un loro singolo, al secondo ascolto pensi che è carino, al terzo ne hai le palle piene. Tra 50 anni verranno ricordati al massimo i Nirvana. Ma soprattutto i Radiohead, gli unici che nell’indifferenza generale inventano ancora qualcosa. Sono loro i Mozart e i Beethoven di quest’epoca”.
di Leonardo Filomeno
@l_filomeno