Davide Monteleone, quale è lo stato di salute della fotografia documentaria oggi?
È un momento curioso, ne ho parlato qualche settimana fa durante gli Stati Generali della Fotografia a Roma. Da un lato credo che non ci sia mai stato più fermento creativo e produttivo, dall’altro conosciamo bene lo stato di crisi dei giornali. Il risultato è che abbiamo una elevatissima produzione ma non si sa bene che cosa fare di tutti i lavori prodotti. Di sicuro, non si può più sperare di veicolarli solo tramite i media tradizionali.
La destinazione di un reportage non è più solo l’editoria?
Intanto bisogna fare chiarezza sulle definizioni. Tra fotografia di reportage, fotogiornalismo, fotografia documentaria ci sono differenze importanti. Il fotogiornalismo ha regole molto chiare e probabilmente la sua destinazione rimangono i magazine, sia cartacei sia online. La fotografia documentaria, che ha radici nel giornalismo ma che non deve necessariamente seguire tutti i criteri rigorosi del giornalismo, può essere destinata anche a situazioni diverse, dal museo, alle gallerie, alle istituzioni.
Tra fotografia di reportage, fotogiornalismo, fotografia documentaria ci sono differenze importanti.
Sono opportunità che sembrano lasciare una grandissima autonomia ai professionisti. Il fotografo, oggi, è completamente libero, ma questo non rende il suo mestiere ancora più complesso?
Sì, il lavoro è sempre più complesso, ma è anche più stimolante. Mentre prima il fotografo era semplicemente l’operatore di qualcuno, usava la macchina fotografica per rendere felice un committente, adesso il campo d’azione è più ampio e la maggior parte delle scelte vengono prese in autonomia, riguardano solo te stesso. Si profila una generazione di fotografi pensanti.
Partiamo dal presupposto che la fotografia deve servire a qualcosa. Quale è la funzione del reportage oggi?
Me lo chiedo spesso. Nell’abbondanza delle fotografie che circolano in questo momento storico, il ruolo del reportage è sicuramente cambiato ma resta valida la sua funzione fondamentale, informare. Anzi, incuriosire. La fotografia, come quasi tutte le arti visive, è un linguaggio universale che ha la capacità di aprire alcune porte sul mondo. Serve quindi a creare cultura, a creare coscienza, a creare informazione.
Ma la fotografia ha ancora questa forza sull’opinione pubblica, oppure da sola non è sufficiente?
Onestamente penso che non l’abbia mai avuta. Ho sempre un po’ di esitazione quanto sento fotografi che si addossano responsabilità che non competono il loro ambito. Negli anni passati, la fotografia ha mostrato ciò che succedeva nel mondo, ma i casi in cui ha cambiato qualcosa sono piuttosto isolati in proporzione al numero di fotografie prodotte.
Negli anni passati, la fotografia ha mostrato ciò che succedeva nel mondo, ma i casi in cui ha cambiato qualcosa sono piuttosto isolati in proporzione al numero di fotografie prodotte.
Tu lavori in zone complesse da un punto di vista politico. In Cecenia, in Ucraina ma anche a Lampedusa, la presenza della politica, delle organizzazioni e delle autorità è forte. Come gestisci una tua indipendenza in questi contesti?
Nella fase di ripresa si tratta di essere semplicemente attenti. Dalla logistica all’organizzazione del lavoro, occorre capire come aggirare gli ostacoli, ma questa è l’abilità di tutti coloro che si muovono in questi ambiti. Credo che il problema, più che altro, sia proteggere l’indipendenza e l’autonomia quando mi confronto con i media, perché sono loro che utilizzano le mie fotografie e possono cambiarne il messaggio.
Ed è molto difficile?
No, quando si parla di media autorevoli non ci sono quasi mai problemi. Ma in realtà credo che sia necessario abbandonare questa idea della neutralità totale dell’informazione e della sincerità assoluta dei media. Il committente, il giornale, ha sempre avuto una propria linea, ha sempre avuto richieste ed esigenze specifiche.
In questi ultimi anni ricorrono due parole: autorialità e storytelling. Davvero bastano?
No, probabilmente non sono sufficienti. Ma bisogna considerare anche quale è la considerazione che una certa cultura ha rispetto al lavoro del fotografo. In alcuni paesi, oggi, il fotografo è considerato un intellettuale, mentre per molto tempo era considerato una figura senza un pensiero autonomo, un supporto a qualcos’altro. Nel momento in cui il fotografo è forzato ad essere indipendente ed autonomo, questa autonomia esige anche una responsabilità. Non vediamo più le nostre foto, vendiamo le nostre idee.
Dedichi parte del tuo tempo all’insegnamento. Che cosa vorresti che portasse a casa chi frequenta un tuo workshop?
Vorrei che i miei studenti capissero che fare fotografie non si riduce a creare una bella immagine, ma che è necessario avere un pensiero, bisogna capire come realizzare l’immagine, quale è il significato dell’immagine che verrà prodotta, quale uso ne verrà fatto e, soprattutto, con quale responsabilità si approccia questo mestiere.
Lavori da molti anni in Asia e in Russia. Che cosa hai individuato in questa area del mondo che può riguardare tutti noi?
Intanto una cosa l’hai detta tu, definendola Asia. Altri la definiscono Europa. Questo primo aspetto geografico e continentale rende questa zona molto interessante da un punto di vista geopolitico. Non parlo solo degli avvenimenti degli ultimi decenni, ma guardo anche alla Storia di questo paese. Un’altra cosa che mi ha sempre incuriosito è la vastità del territorio, le differenze umane molto diverse e sono rappresentative dell’umanità in generale. E poi, qui c’è questo strano e perverso rapporto tra il potere e l’individuo.
In questi giorni stai lavorando ad un nuovo libro, riguarda proprio la Storia della Russia.
Sì, il titolo è . È un libro in cui manipolo completamente il mio modo di fare reportage. Riguarda il viaggio che Lenin ha fatto dalla Svizzera, dove era esiliato, alla Russia, per prendere le redini della Rivoluzione. Ho ripercorso lo stesso tragitto, mi sono trasformato in Lenin e, a Mosca, ho lavorato su molti documenti rintracciati all’Archivio di Stato.
È un progetto complesso e articolato, rappresenta molto bene quella autonomia del fotografo di cui parlavamo prima.
Sì, sono partito dal fatto che quest’anno è il centenario della Rivoluzione Bolscevica. A quel punto ho cercato di trovare un argomento più ridotto rispetto ad un tema così vasto. Ho scoperto così questo viaggio e l’ho sviluppato in modi inediti. Il libro contiene fotografia di viaggio, fotografia documentaria, ritratti posati e manipolazioni digitali.
Le motivazioni con cui hai iniziato a fare fotografia quindici anni fa sono le stesse di oggi?
Le linee guide dell’approccio alla fotografia sono rimaste le stesse. Ovviamente la mia fotografia si è evoluta e si sono evoluti anche i miei pensieri. Sono cambiate anche le convinzioni che avevo rispetto al potere della fotografia, riguardo ciò che si può fare e ciò che non si può fare con la fotografia.
Non vediamo più le nostre foto, vendiamo le nostre idee.
Il tuo metodo di lavoro prevede una importante fase progettuale. Poi, però, vai sul posto e la realtà può essere diversa dalle tue previsioni. Come gestisci questo momento?
Mi adatto, non c’è altro modo. Fa parte del principio della fotografia documentaria. Non si può cambiare lo stato delle cose.
Qualche settimana fa abbiamo intervistato il direttore di 6Mois, , e abbiamo parlato della tendenza un po’ obsoleta di alcuni fotografi ad andare in luoghi esotici, come se solo lontano da casa si potessero trovare le storie. Quale è la tua opionione?
Questa tendenza si è un po’ ridotta, per fortuna. Personalmente, vivo in Russia da così tanto tempo che di fatto sono diventato locale. La distinzione dev’essere fatta tra la capacità di approfondire un tema e quel metodo di lavoro che un tempo si chiamava “orientalismo”. Gli stessi giornali, oggi, tendono ad avere forti conoscitori sul posto piuttosto che ad inviare fotografi per periodi troppo brevi.
Pensi che la fotografia di reportage si stia concentrando su pochi fenomeni, lasciandone inesplorati altri?
È un dibattito molto attuale. Di sicuro c’è una tendenza all’apertura a nuove scuole di fotografia, rispetto alla fotografia che abbiamo visto fino ad oggi. C’è la necessità di trovare qualcosa di diverso, ma d’altra parte questo diverso dev’essere interpretato secondo un criterio affine alla nostra capacità di lettura.