, chi scatta migliaia di fotografie ogni settimana si pone il problema che una sua foto resti nel tempo?
Più che altro, la vedrei in questi termini. Nel mio caso, a seconda dei campi in cui lavoro vengo sempre presentato per ciò che faccio nell’altro campo. Quando mi occupo di reportage, dicono “arriva il fotografo di moda”, quando mi occupo di fotografia di moda dicono “chiamiamo Stefano Guindani, che fa reportage”. Onestamente mi sento un fotoreporter, come se attraverso le immagini stessi raccontando ogni volta una storia. Ma non solo, la fotografia di reportage mi permette di contribuire ad una pagina di Storia. Quando in Guatemala incontro le vedove dei desaparecidos, sto fotografando una realtà che consentirà a chi guarda i miei scatti di conoscere una storia che prima non conosceva. Questa è la mia idea di fotografia, in grado non solo di restare nel tempo ma, soprattutto, di portare alla luce qualcosa di nuovo.
Mi sento un fotoreporter, come se attraverso le immagini stessi raccontando ogni volta una storia. Ma non solo, la fotografia di reportage mi permette di contribuire ad una pagina di Storia.
Per fare questo, la tua fotografia deve arrivare a tutti, non deve essere elitaria?
La fotografia deve essere pop. Diciamolo chiaramente, quanti sono in grado di riconoscere la gamma di grigi di uno scatto di Ansel Adams? Più una foto è alla portata di tutti, meglio è. Spesso mi chiedono se realizzare la copertina di un giornale importante sia una grande soddisfazione. Certamente lo è, ma la soddisfazione è molto più grande quando una foto che espongo viene acquistata da una persona non ‘addetta ai lavori’, ma che trova in quell’immagine un significato.
Lavorare molto, come fai tu, porta a prendersi molto sul serio?
Non bisogna mai prendersi troppo sul serio. Bisogna essere bravi, bisogna essere professionisti. Noi fotografi facciamo un lavoro bellissimo e, a volte, come ti dicevo, scriviamo pagine di Storia. Ma se penso che oggi mantengo la mia famiglia e, forse, le famiglie dei miei collaboratori con una macchina fotografica, lo considero un risultato incredibile, qualcosa che mai avrei potuto immaginare quando avevo diciotto anni. Vorrei riuscire a mantenere sempre vivo questo senso di stupore.
A diciotto anni avevi le idee chiare sul tuo percorso?
Sì, sono un creativo matematico. Adoro la matematica e i numeri. Sono molto determinato, mi prefiggo traguardi precisi, anche nelle piccole cose. Qualche tempo fa mi ero prefissato l’obiettivo di fare, per un anno intero, dodicimila passi al giorno. Mi sono trovato a camminare in tondo nell’aeroporto di Seoul, o in una zona protetta di Haiti, sotto il diluvio, perché dovevo terminare il mio compito. Tutto questo mi dà una certa stabilità. Quando mi sono trasferito da Cremona, i miei obiettivi erano di trascorrere due anni a Milano, due anni a Parigi, due anni in Giappone. Poi, a Milano ho iniziato a lavorare parecchio, ho fondato e tutto il resto è venuto di conseguenza.
Come è andata con la tua prima macchina fotografica?
Durante le scuole superiori ho iniziato a lavorare in un laboratorio di Cremona, ci occupavamo di sviluppo rapido dei rullini fotografici. Poi mi sono inserito in teatro come fotografo di scena, ero specializzato nella danza. Amavo il movimento, fotografavo in pellicola, ancora non esisteva lo scatto sequenziale e il lavoro era simile a quello di un cecchino. Dovevo osservare per giorni le prove, capire in anticipo quale sarebbe stato il movimento successivo della ballerina, ed in quel momento esatto scattare. Era una sfida. Oggi, con le macchine fotografiche in grado di scattare alla frequenza di venti scatti al secondo, forse non sarebbe più così divertente.
Amavo il movimento, fotografavo in pellicola, ancora non esisteva lo scatto sequenziale e il lavoro era simile a quello di un cecchino.
Oggi hai uno studio molto strutturato, sei un imprenditore, che vantaggi ti dà?
Essere strutturati è un grande vantaggio. viene percepita, soprattutto dal mondo della moda e degli eventi, come un’ agenzia dove è possibile trovare il fotografo più adatto per ogni esigenza. Credo che avere una struttura sia indispensabile, e mi piacerebbe vedere evolvere ulteriormente l’agenzia che ho fondato. Vorrei mantenere la struttura attuale per quanto riguarda i clienti e le produzioni esterne e vorrei dedicare una parte dell’agenzia alle produzioni che riguardano il mio lavoro personale. Mi sono sempre sentito inquieto, precursore, dopo qualche tempo le situazioni mi stanno strette e cerco di cambiare lo stato delle cose. Nella mia vita ho fatto scelte che hanno generato anche antipatie, ma oggi penso siano state ottime scelte.
Che tipo di libertà senti di avere quando lavori con i tuoi clienti?
Bisogna vedere la realtà delle cose. Esiste una grande percentuale di fotografie che non influenzano il pubblico, ma che sono finalizzate a trovare spazio in rubriche per cui le foto devono essere semplicemente scattate in un determinato modo. Ci sono poi foto che devono essere realizzate in base all’immagine che uno stilista, o un imprenditore, vuole dare di sé, del proprio brand. Su questo tipo di scatti esiste maggiore libertà d’azione, molto però dipende dalla voglia di mettersi in gioco delle persone che vengono fotografate o che commissionano il servizio. La difficoltà è capire fino a dove puoi spingerti, è questa la grandissima sfida in questo genere di rapporti.
Mi sono sempre sentito inquieto, precursore, dopo qualche tempo le situazioni mi stanno strette e cerco di cambiare lo stato delle cose.
Ci vuole tempo per creare questi rapporti?
L’empatia si crea abbastanza in fretta. La professionalità va dimostrata nel tempo, soprattutto è necessario saperla mantenere.
Il mondo editoriale è diventato un gioco al ribasso?
Sicuramente il mondo editoriale dispone di risorse minori rispetto al passato e i fotografi si devono adeguare a questa realtà. Sarebbe bello avere la possibilità di realizzare un numero limitato di produzioni all’anno con budget sostanziosi, principalmente per avere il tempo di preparare il lavoro con anticipo di settimane o addirittura mesi, occuparsi con calma dei casting, studiare lo styling, cercare la location migliore. Questo darebbe maggiore soddisfazione e maggiore qualità al lavoro finale. Ma la realtà è che il mondo editoriale, per come è attualmente, non può dare questa possibilità, realizzabile solo nell’ambito di grandi progetti pubblicitari.
Il denaro condiziona il tuo modo di trovare idee?
Le idee le trovo a prescindere, il problema è realizzarle. Bisogna sempre partire dai budget. Mi piace pensare in grande, a volte mi rendo purtroppo conto che per la qualità del lavoro che produciamo, i compensi sono troppo bassi.
Dopo trent’anni di lavoro, cerchi sempre le novità?
Sì, mi annoio spesso quindi cerco cose nuove. Trovo noioso ritornare sulle cose che ho fatto. A volte mi trovo a parlare di lavori realizzati mesi prima, mentre sto già pensando ai progetti per l’anno successivo. Il passato mi annoia, ogni tanto riguardo le immagini d’archivio, ma solo per studiare e trovare nel confronto con il passato nuovi spunti creativi.
Nel tuo lavoro, quale peso dai all’essere un buon fotografo, all’avere una forte cultura e alla capacità di creare relazioni?
La tecnica può essere appresa da chiunque, soprattutto oggi. L’aspetto culturale è più complicato, deve appassionarti leggere, approfondire, informarti, visitare le mostre, guardare le foto degli altri. Poi ci vuole il coraggio di rischiare, perché puoi partire prendendo spunto dalle foto di altri, puoi provare a riprodurle, ma poi devi necessariamente provare a creare qualcosa di tuo. Infine, la parte relativa alle pubbliche relazioni credo abbia un suo peso, almeno per il cinquanta per cento del lavoro. Stiamo comunque parlando di rapporti interpersonali, se hai realmente bisogno di vivere di questo lavoro, devi esporti e relazionarti.
Mi annoio spesso quindi cerco cose nuove. Trovo noioso ritornare sulle cose che ho fatto. A volte mi trovo a parlare di lavori realizzati mesi prima, mentre sto già pensando ai progetti per l’anno successivo.
Se tornassi indietro…
Se potessi tornare indietro e ricominciare a fare questo lavoro, mi dedicherei maggiormente al reportage e cercherei di renderlo più pop.
Hai avvertito dei pregiudizi per tuoi i lavori su Haiti? Voglio, dire, persone che dicono “Guindani, dal mondo del lusso, è andato a fotografare questi bambini”.
No, questo no. Ho ricevuto però alcune critiche perché non ho mai fatto parte del ristretto circolo dei fotografi che partecipano ai concorsi, dei fotogiornalisti che sostengono di dedicarsi al reportage per vivere, come se questo fosse una discriminante.
Che cosa hai portato da Haiti alla moda?
Più che altro, dalla moda ad Haiti ho portato tutto. Sono andato sull’isola con i miei assistenti come su un set, ho scattato immagini in stile ‘street style’ con lo sfondo sfocato, ho fatto saltare per i miei scatti i bambini di Haiti nello stesso modo in cui faccio saltare le modelle nei backstage, ho cercato di valorizzare gli aspetti comunicativi.
Il tuo mestiere è molto competitivo?
Sì, per varie ragioni. Ci sono molti fotografi che non riescono a vivere di questo lavoro e che, per non perdere neanche un ingaggio, stanno abbattendo i prezzi. Inoltre, il problema principale della nostra attività è che non è regolamentata in maniera chiara e definitiva, non esiste un albo dei fotografi, non c’è chiarezza, chiunque può fare e vendere fotografie al prezzo che vuole.
E il modo per uscirne è avere il nome?
Professionalità, passione per il proprio lavoro e quindi nome. Con i miei fotografi insisto molto perché realizzino mostre, seguano progetti personali. Oggi bisogna che emerga il nome.
Quale è l’errore da non commettere?
I giovani devono crescere piano piano, gradualmente, devono avere fiducia nelle agenzie e nelle persone che li rappresentano. Devono imparare a non “svendere” il proprio lavoro accettando compensi troppo bassi. E poi, l’errore più grosso è quello di non evolversi. Oggi, per esempio, è necessario lavorare per il web, e il web ha un suo linguaggio preciso, non si tratta di un lavoro secondario; scattare una foto destinata ad Instagram non è più semplice che scattare un servizio classico. Se sottovaluti, per esempio, un fotografo perché instagrammer, non stai cogliendo l’essenza del mercato di oggi. Per me questo lavoro è uno stimolo continuo. Come ti ho detto, tendo ad annoiarmi, ad ogni fashion week cerco di inventare qualcosa di nuovo. Il nostro cervello è come una spugna che assorbe dalle esperienze e che si arricchisce continuamente.