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Stefano Fontana, mister Stylophonic: “A 10 anni già sognavo di fare il dj, ma ora guardo solo avanti”

La devozione al ritmo fu un patto col fato: “Decisi a 10 anni che avrei fatto il dj. Ignoravo completamente il modo. Lo decisi e basta. Ancora oggi, quel tipo di attitudine, mi resta cucita addosso”. In un momento di confusione totale, con tanti dj importanti sottomessi ormai al pop e l’immagine che ha la meglio in troppe console, nei dischi di Stefano Fontana alias Stylophonic la cassa continua a spingere. “Alzare il braccio e girare con gli aerei privati mi sta pure bene, ma non faccio quello. La mia missione è far divertire, proporre musica figa, che mi piace”, spiega con un sorriso il dj producer milanese, orecchio teso al futuro, grande conoscenza, testa. È nato nel 1970 e mette i dischi da 30 anni. Il suo estro è noto a latitudini impensabili grazie a pezzi straordinari come If Everybody in the World, Soulreply, Pure Immagination, Baby Beat Box. Per aspiranti e addetti, è un modello indiscusso. “La gente deve ballare, sudare, innamorarsi grazie all’energia della musica”, scandisce. “Per questo sono sempre pronto, in trincea. Questa è la mia più grande vittoria”.

Infatti Working Club Class Hero ha una potenza insolita per i canoni della house odierna. 
“Il beat è semplice, c’è una nota di basso che carica, come fosse una chiamata alle armi. L’ho mixato a New York, assieme a Dave Darlington, uno che un certo suono ‘house’ se l’è inventato. Tutti i dj possono suonarlo”. 
Il singolo anticipa l’album We Are e un paio di sorprese. 
“Stylophonic oggi è club, ma aperto a tante situazioni. Parto sempre dalla house, dentro ci metto elementi estranei a questo genere, alla mia maniera. Sono tornato all’essenza. L’album, in uscita all’inizio del 2018 sulla mia etichetta Beat Mansion records (distribuzione Universal, ndr), richiama lo spirito dei primi due lavori come Stylophonic. È un disco pieno di colori, tra pezzi cantati e strumentali”.
Il clubber a cui dedichi il pezzo vive tempi di vacche magre. 
“Per chi si affaccia al mondo della notte, la percezione oggi è diversa. La mia generazione ha vissuto il fenomeno del clubbing da zero, c’erano più freschezza, un creatività di frontiera, si osava. Il clubber tradizionale vive una fortissima crisi legata a fattori economici e al fatto di non sentirsi mai al passo coi tempi. È qualcosa di incontrollabile, che vira a favore di situazioni musicali più grosse, come i festival”.
Con l’avvento dei social, è come se un importante ciclo si fosse per sempre chiuso. 
“Nella dance non si parla più di generi, ma di sonorità. Fino ai primi anni 2000 c’era meno musica in giro, e il mercato chiedeva maggiore complessità nella produzione, dunque fare un disco non era alla portata di tutti. Adesso la tecnologia ti permette di produrre dei suoni, che però alla fine si somigliano tutti. Chiunque può produrre, ma il background, in molti casi, è più carente. Grazie ai social, il dj emerge perché ha fatto un bel disco, ma anche per fattori che con la musica c’entrano poco”. 
Il bisogno di molti sembra quello di tornare al passato.  
“Il revival è in antitesi col mio approccio curioso. I dischi meravigliosi esistono ancora, ma è come se fossimo tornati all’inizi, quando ti capitavano tra le mani quei 30 vinili che il negoziante dava solo a te, e, guarda caso, erano i più belli. Si fa più fatica nella ricerca, perché ad emergere è quel prodotto simile agli altri, che appiattisce etichette, dj e artisti. In una offerta smisurata, dove la meritocrazia non regna sovrana e il numero 1 in classifica non è detto sia il migliore, con un po’ di pazienza trovi comunque produzioni che fanno la differenza nel tuo set e non ti omologano al 100%. Aggiungo che il pubblico non è stupido, e quando proponi la versione rieditata di un pezzo vecchio, che magari aveva qualcosa di veramente caratteristico, viene giù il mondo (sorride, ndr)”.
Hai detto: “Lo schema odierno è ridondante, e quando accade questo, la crisi di un sistema è inevitabile”. 
“La musica ha bisogno di un nuovo twist. Di un azzardo in più. Il dj è quello che ha stravolto le regole del mondo discografico, campionando brani di altri senza essere musicista. Non può permettersi di diventare statico, identico a mille colleghi. Ha bisogno di ragionare con la propria testa. Di tornare a prendersi dei rischi”. 
L’Italia consueto fanalino di coda? 
“Ragazzi come Merk & Kremont o Vinai, anche se lontani dalla mia storia, funzionano, e li rispetto. Però mi fanno capire che produzioni italiane vicine ai miei gusti, oggi, in circolazione, ce ne sono meno. Sul versante club, comunque, il sottobosco dei vari Flashmob, Riva Starr, Stefano Ritteri, Romano Alfieri o Davide Squillace nel mondo continua a spaccare”.
La musica della vita? 
“Il 45 giri di The Breaks di Kurtis Blow, il secondo che ho comperato con papà, dopo Rapper’s Delight della Sugarhill Gang: tutto, in fondo, nasce dal mio amore per l’old school hip hop. Poi i Beastie Boys, che sono come la prima bmx, le Adidas, l’America, il primo skateboard. Fondamentali Masters At Work, Todd Terry, Chemical Brothers, Daft Punk, Cassius e Aphex Twin. Lucio Battisti per me è sempre stato uno avanti. E nella mia musica troverai sempre qualcosa dei Kraftwerk”.
Errori sul lato artistico, col senno di poi? 
“Avrei potuto dare una veste sonora diversa ad alcuni brani di Boom, il mio progetto in italiano”.
Hai detto: “Io produco perché sono felice, ma l’obiettivo è trasformarlo in Io sono felice perciò produco“. 
“Crescendo si tende ad essere più cinici e razionali. Prima, se entravo in studio e dopo un’ora non usciva fuori nulla, andavo fuori di testa. Adesso spengo, vado a fare un giro e torno quando sono più tranquillo. Dancefloor l’ho realizzata in 3 ore e mezza, in aeroporto. Per altri pezzi ci ho messo settimane. E il risultato non è stato lo stesso”.
Cosa ti fa più paura? 
“Io ho paura della malattia. E di quelli fissati sui social. Ma per fortuna esiste la funzione blocca, che è meravigliosa (ride, ndr)”. 
“Ho fatto tutto” è un pensiero frequente? 
“No, mai penserò una cosa del genere. Potrei pensare di non essere più in grado, artisticamente, di fare qualcosa che possa soddisfare le esigenze mie e degli altri, questo sì”.
Stefano Fontana oggi si piace? 
“Non sono una persona statica, so cambiare idea, ricredermi, capisco subito quando ho sbagliato e ho la capacità di chiedere scusa. Queste sono le cose che mi piacciono di me, che mi facilitano nella vita. Oltre a quella voglia matta di poter continuare a cambiare e di scoprire la mia evoluzione come uomo e genitore, visto che la cosa più importante oggi è quella di essere un buon padre. Per il resto, sono un tipo un permaloso e, come tutti, ho tanti difetti, che andrebbero senz’altro migliorati. Però sì, oggi sono quello che mi ero prefissato essere. E questo mi rende risoluto e felice”.

di Leonardo Filomeno 
@l_filomeno


Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/rss.jsp?sezione=375


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