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Robert Doisneau: ho fatto tutti gli errori possibili

Vorrei cominciare con degli argomenti molto semplici, quelli profondi seguiranno, non ci si scapppa. Per esempio dal fatto che hai dovuto guadagnarti da vivere. Alcuni fotografi lavorano senza preoccuparsi se venderanno le loro foto, sia perché hanno altre risorse, sia perché hanno il coraggio di privarsi di tutto, come Koudelka. Non è stato il tuo caso, e neanche il mio. Hai fatto certe foto semplicemente perché dovevi guadagnarti da vivere. Eppure, in quello che resta di questi cinquant’anni, non si avverte il lavoro su commissione, si riconosce solo Robert Doisneau. Come è stato possibile? Non immagino che ad ogni scatto tu ti dicevi: Questo è per esprimere me stesso o al contrario: Questo è per guadagnarmi da vivere.

Non credo che la libertà totale sia davvero auspicabile. Quando si può contare solo su se stessi per le esigenze quotidiane, si accettano proposte di lavoro di ogni genere. Ma si conserva sempre uno sguardo obliquo, una parte di gioco. È come una specie di piccolo furto sulle ore di lavoro dovute al padrone – e sono queste le foto, un po’ rubate, che restano.

Dunque tu distinguevi: Questa foto è per me, questa per il cliente. Lo noto perché per me non è sempre stato così. Quando facevo certe foto di moda, per esempio, mi capitava di crederci, come se le stessi facendo per me stesso.

Questa è una tua abilità, un tuo lato professionale. Quando io praticavo la foto di moda su fondo bianco, per Vogue, il mio ruolo mi pareva secondario. Quando vedevo sflilare una collezione, non provavo niente di particolare, non mi dicevo mai: Devo assolutamente fotografare questa ragazza con quest’abito. D’altra parte le modelle erano meno simpatiche che oggigiorno, avevano tutte l’aria di disprezzare quel tipetto che, dall’altra parte dell’obiettivo, cercava di fare la sua foto.

Tuttavia penso che tu sia arrivato a convincerti dell’interesse di certe ricerche, delle quali oggi ti dici: È stato un errore, mi sono lasciato trascinare dal gioco.

Ho fatto tutti gli errori possibili. Perché per indole sono disobbediente e non accetto mai di fare quello che mi si dice. Devo provarmici da solo, e questo mi ha fatto prendere molte piste false. Ho passato un anno a fabbricare un apparecchio per mettere in piano i cilindri. Volevo fotografare dei vasi fatti da un contadino, portarli in due dimensioni, affinchè si potesse leggere il bassorilievo con un solo colpo d’occhio. Ci vuole una bella testardaggine per accanirsi su una cosa di questo genere. Volevo imitare le ricerche di Marey, sulle quali avevo delle vaghe nozioni. Ma in fondo non avevo letto un gran che, mi ci son messo come l’ignorante che ero.

È stato così anche per me. Conoscevamo il lavoro degli altri solo attraverso qualche foto nelle riviste.

È proprio così: io avevo visto qualche foto di Brassaï, ma ignoravo l’esistenza di Kertesz o di Atget. Il caso ha voluto che lavorassi negli stessi luoghi di Atget, alla Porte d’Italie o nella valle della Bièvre, con una macchina fotografica in legno su treppiedi, un po’ come la sua. Ma non ho conosciuto il suo lavoro che molto più tardi.

È interessante confrontare il tuo primo libro sulla periferia con quello pubblicato adesso da Delpire. Molte foto sono le stesse, ma l’insieme è diverso, come se qualcosa d’essenziale si fosse chiarificato.

Del tutto a mia insaputa. Me ne sono reso conto preparando la mia mostra a Saint-Denis. Questa sarà la mia ultima mostra – o almeno l’ultima fatta in questo modo. Il caso ha voluto che tornassi sempre di nuovo a Saint-Denis, benché sia una periferia lontana dalla mia. È un miscuglio straordinario, io sono sempre attirato dai miscugli strani. Gente di ogni origine, una basilica con le salme dei re di Francia, a venti metri da un municipio comunista, un canale, una autostrada, un’architettura di grandi complessi e delle villette. È il tipo di miscuglio che mi attira. In fin dei conti, io ho sempre fatto degli autoritratti, nella misura in cui ho mostrato persone che vivono in scenari assurdi, come me. La mia periferia è stata piuttosto quella delle case a due piani, grigie e stupide, con degli angolini, delle escrescenze, dei rattoppi, della gente che viveva tra la strada e il bar. Ogni tanto c’era un’officina, come l’impresa di impianti idraulici di mio nonno. Dalla mia finestra, vedevo gli operai che venivano a prendere il loro lavoro la mattina presto. Se gli restava un quarto d’ora prima di iniziare, andavano a farsi un bicchiere al bar di fronte. Ne uscivano leggermente brilli, prendevano il carretto a mano e se ne andavano a lavorare, a volte molto lontano, l’apprendista tra le stanghe ed l’operaio che spingeva da dietro. Mi conoscevano tutti, ben inteso, io li guardavo lavorare: è bello da vedere, uno che fa una saldatura.

Ma perché dici che la mostra di Saint-Denis sarà l’ultima?

Il museo di Saint-Denis è un antico convento carmelitano, un luogo pieno di fantasmi, dove ha vissuto Luisa di Francia, la figlia di Luigi XV, e dove adesso si possono vedere dei documenti su Louise Michel, l’ispiratrice della Comune – ancora un accostamento straordinario. L’idea della mostra è venuta un po’ dal fascino di questo luogo. Il direttore voleva presentare le foto che avevo fatto a Saint-Denis nel 1943 e nel 1944, durante l’occupazione. Era stato un inverno molto freddo, il canale era gelato, i ragazzi ci raccoglievano il carbone caduto dalle gru. Gli ho proposto di esporre dieci foto di allora e di aggiungerne cinquanta che avrei fatto nella Saint-Denis di oggi. Mi ci sono voluti due anni, è raro che mi riesca più di una foto al giorno, e ci sono dei giorni in cui non ne riesce nessuna. Queste foto recenti sono forse un po’ meno aneddotiche di quelle del 1944, più spoglie. Oggi la gente comprende meglio le immagini, non c’è più bisogno di raccontare una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine. L’inizio basta, la fine la indovinano. Ti ho detto che è l’ultima mostra di questo tipo perché tra quattro o cinque anni non avrò più la forza fisica per una tale impresa. Non mi rendo bene conto a che somigli, questa mostra. Mi dicono che è molto bella, ma sono gli amici che me lo dicono. L’ho fatta con quel po’ di faccia tosta che mi resta, e con le mie possibilità di adesso.

Tu dici che le tue prime foto erano più aneddotiche. Era proprio questo che allora gli rimproveravo. Bisogna dire che io ero diventato un seguace fanatico di Cartier-Bresson. Al mio primo incontro con lui, avevo avuto la faccia tosta di mostrargli i miei primi reportage, fatti con una Rolleiflex. Ha esclamto che se il Buon Dio avesse voluto che si fotografasse con una 6×6, ci avrebbe messo gli occhi sulla pancia. Dunque mi sono comprato una Leica e ho cercato di seguire i suoi consigli, nella misura in cui potevo intenderli. Ma tutto questo mi rendeva intollerante. Per esempio, trovavo che nelle tue foto ci fosse troppa aneddotica e troppo poca composizione. Gli rimproveravo i difetti del 6×6: la costruzione in rapporto al centro dell’immagine, l’imprecisione di quello che succede ai lati. È solo molto più tardi che ho capito meglio, ed è stato come una rivelazione istantanea, come certe conversioni sotto l’effetto di uno choc. Da quel momento, i tuoi personaggi hanno cominciato a vivere per me, sapevo quello che pensavano o quello che stavano per fare. Da ciascuno di loro partiva una linea di forza, e la composizione della foto era nel rapporto tra queste linee. Avrei dovuto rendermene conto molto prima.

È un po’ colpa mia. Avevo la sensazione che la gente non sapesse leggere le foto, e mi dicevo: Sarò gentile, esageratamente, come bisogna esserlo con i malati. Da qui tutte queste piccole farse, le sequenze, gli aneddoti, lo stile da vignetta umoristica. Adesso è diverso, la gente capisce subito, non c’è più bisogno di caricare l’immagine con simboli pesanti come mazzate.

D’altra parte non sono solo i personaggi umani delle tue foto che io sento vivere in questo modo, ma anche il coniglio, la scimmia…

Robert Doisneau : … le case…

… e le statue, i personaggi dei manifesti. Tutti hanno l’aria di avere delle cose da dire, delle intenzioni, le loro linee di forza si incrociano tra loro e con quelle delle persone umane.

Il nostro vantaggio, rispetto ai pittori e agli scrittori, è questo contatto con il lato rugoso delle vita. Questo ci dà una lezione di umiltà e ci permette di evitare certi errori. Ma soprattutto ci nutre. La vitalità degli altri ci nutre, a loro insaputa. È questo che mi ha fatto del bene in questo lavoro a Saint-Denis: il fatto di ritrovarmi ancora una volta nella strada, a contatto con la gente. Devo dire che le persone mi sono sembrate meno gentili che vent’anni fa, forse per via dei fotografi di oggi, che impugnano i loro apparecchi come delle armi – allora il coniglio, dall’altra parte dell’obbiettivo, reagisce male. Io non oso lavorare come questi fotografi, non ho la sfacciataggine di William Klein. Mi capita di lasciarmi trascinare dalla macchina fotografica, ma dopo aver scattato la mia foto, mi chiedo: E adesso come faccio a tirarmene fuori, a dare una spiegazione a queste persone?

Immagino che quando Klein guarda attraverso il mirino, veda soprattutto delle forme. Mentre tu non dimentichi mai gli esseri umani. Tranne forse nel caso degli innamorati, in cui il ruolo diventa più importante delle persone. I tuoi innamorati recitano un po’, come degli attori, mentre i personaggi nello sfondo restano veri, di loro so cosa gli passa per la testa.

Io ho avuto due o tre noie con la giustizia, l’invenzione del diritto delle persone sulla loro immagine spesso impedisce di cogliere la spontaneità. Quindi io fermo le persone e gli dico: Vi ho visto passare là, vorreste gentilmente ricominciare a baciarvi? È stato il caso degli innamorati dell’Hôtel de Ville, che hanno ripetuto la scena. Quelli con il venditore di frutta e verdura erano innamorati a noleggio, una mia messa in scena.

Lo si sente un po’…

L’avevo fatto per restare in uno stile di amabilità, per mostrare delle piccole scene parigine, come in uno di quegli spettacoli di rivista del tipo Parigi sarà sempre Parigi. Forse oggi sembrano un po’ sdolcinate, ma allora si vendevano. La foto degli innamorati dell’Hôtel de Ville faceva parte di una serie sulla quale avevo già lavorato una settimana, bisognava completarla con due o tre foto dello stesso tipo. Ma io non le trovo fastidiose. In fondo, non c’è niente di più soggettivo dell’obiettivo, noi non mostriamo il mondo com’è veramente. Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.

La foto degli innamorati dell’Hôtel de Ville faceva parte di una serie sulla quale avevo già lavorato una settimana, bisognava completarla con due o tre foto dello stesso tipo.

Barthes lo chiama lo studium. È ciò che il fotografo vuol dire quando fa una foto. Ma al di là di questa intenzione, c’è il miracolo che noi aspettiamo e che qualche volta riusciamo a cogliere. È comunque questo che ci fa correre.

L’attesa del miracolo, è vero. È una cosa molto infantile, e allo stesso tempo è quasi un atto di fede. Troviamo una scenografia e aspettiamo il miracolo. Conosco una scenografia che non ha mai funzionato, forse perché non ci sono rimasto il tempo necessario, o perché non ci sono tornato abbastanza spesso. In primo piano ci sono gli scalini della chiesa di Saint-Paul, quello che si vede sullo sfondo è un perfetto sobborgo, tale e quale la letteratura e il cinema ci hanno insegnato a immaginarlo. Io lo inquadro nel mirino, dalla via Turenne fino al negozio del Gant d’Or, e mi pianto là, per un’ora, due ore, e mi dico: In nome di Dio, dovrà pur succedere qualcosa. Immagino delle cose che mi piacerebbe vedere, una più folle dell’altra. E poi niente e ancora niente. Oppure succede qualcosa – boom – ma non è proprio quello che avevo immaginato e lo manco. Il miracolo si è prodotto, ma a causa della mia disattenzione, della mia stanchezza fisica, l’ho mancato. Dopo aver aspettato due ore, i riflessi non sono più pronti, l’emozione non è più disponibile.

Ho avuto la stessa esperienza nelle strade di New York. Mi dicevo: È una buona cornice, aspetterò qui. Ma io non sono un pescatore, come te. Se il miracolo non è puntuale all’appuntamento, perdo la pazienza e me ne vado. Ma mi chiedo se le attese spese in questi luoghi non portino i loro frutti altrove, in altri momenti. Come un vuoto che si forma nella mente, e che sarà pronto per accogliere il miracolo, quando il miracolo verrà.

Hai ragione. Si va altrove e si conserva questa tensione e nello stesso tempo questa calma interiore che fanno sì che si sia pronti a cogliere quello che si attende. Un’altra cosa che ci prepara è la notte. Quando mi trovo in posizione orizzontale, il cervello è irrigato, come il tappo di una bottiglia coricata. Questo mi fa immaginare delle cose, mi fa venire voglia di essere per strada, di utilizzare questo funzionamento del mio cervello. Dunque mi alzo ed esco, con un desiderio di vedere e di ammirare. Questo, il meravigliarsi, non si impara nelle scuole. E non succede tutti i giorni.

Quando mi trovo in posizione orizzontale, il cervello è irrigato, come il tappo di una bottiglia coricata. Questo mi fa immaginare delle cose, mi fa venire voglia di essere per strada, di utilizzare questo funzionamento del mio cervello.

Ho una domanda terra terra da porti: tu hai trovato questo titolo meraviglioso, Tre secondi d’eternità…

È tratto da Jardin, la poesia di Jacques Prévert.

…ma in realtà, evidentemente, il tempo che tu passi con il tuo apparecchio, a guardare, a girare attorno ai soggetti, rappresenta molto più che la semplice somma dei tempi di posa. Quanto tempo in rapporto alla tua vita? Quanti giorni per settimana, quante ore per giorno?

Moltissime. Non saprei contare le mie ore di folle speranza, di attesa che il miracolo si produca. È raro che passi una settimana, senza che io mi preservi a questo scopo almeno un giorno. Ma a volte ho l’impressione che la sorte si accanisca contro di me. Mi ci sono voluti cinque anni per farmi mettere alla porta dalla Renault – avevo fatto di tutto, ma ho comunque dovuto attendere cinque anni – e tre mesi dopo c’è stata la dichiarazione di guerra, e la mia libertà è finita. Adesso, che non ho più bisogno di fare foto pubblicitarie o di piegarmi alle esigenze delle riviste, è la malattia di mia moglie a piombarmi addosso, che dura da dieci anni e mi impedisce di disporre delle mie giornate. È come una fatalità. Ma credo che l’esasperazione che ne consegue possa anche avere un effetto creativo.

Il tempo di noi fotografi è particolare. Ci sono dei musicisti che provano dieci ore al giorno, degli scrittori o dei pittori che lavorano con regolarità, da tale ora a tale ora. Per noi, le ore che passiamo con l’apparecchio in mano sono relativamente poche. Ma, come dici tu, la creatività si accumula forse nei tempi morti.

La mancanza di libertà aumenta la mia determinazione, mi dico: Riuscirò comunque a farla, questa mostra a Saint-Denis, anche se non posso lavorare che il sabato – che è il giorno in cui un’infermiera si occupa di mia moglie – anche se non posso andarci al mattino presto, se non posso fare foto di notte. Forse è questa costrizione che porta una specie di unità nelle immagini.

La mancanza di libertà aumenta la mia determinazione.

Un’accumulazione del desiderio di vedere. Come il cappuccio che si mette sugli occhi dei falchi da caccia.

Il cappuccio è esattamente quello che sento. Quando vado in giro, sono sempre accompagnato da fantasmi: Cendrars, Prévert, Pontrémoli, i miei amici scomparsi. Quando trovavo un’immagine, era a uno di loro che la destinavo e a cui la mostravo per primo. Era un po’ come un debito, perchè erano loro che mi avevano insegnato a vedere questo tipo di cose. Adesso loro sono in anticipo su di me, se ne sono andati. Ma a volte, quando passeggio, una canzone di Prévert mi accompagna.

Pensavo a ciò che dicevi sulla costrizione. In fin dei conti, la fotografia è un’alternanza di aperture e di chiusure. Come l’otturatore. Quando dici: Io non parlo le lingue, non mi piacciono i grandi viaggi, è una chiusura, ma che ti è necessaria, che ti permette altre aperture.

Sono regole che ci imponiamo, di un gioco molto complicato, con dei giardini segreti che non bisogna calpestare. Come i ragazzini che fanno dei disegni per terra e saltano, incrociando i piedi, hop il cielo! hop l’inferno! È il gioco della campana. Io mi impongo dei limiti, mi proibisco di mostrare certe cose, la violenza per esempio. So che esiste, che ci sono dei fotografi che la mostrano molto bene, e io non dico che hanno torto, ma non è una cosa che fa per me, il settore è troppo affollato. Il meravigliarsi, al contrario, è un obiettivo che pochi fotografi si sono dati. Ci si può meravigliare davanti a un oggetto, un edificio, un albero. Un personaggio può sembarci misterioso quanto un oggetto, perché non sappiamo quello che succede dentro di lui.

A proposito del gioco della campana: tu mi hai detto che non ti dà fastidio che le tue foto siano selezionate da altri – ed anche riquadrate. Pochi fotografi direbbero la stessa cosa. È ancora il gioco della campana, una possibilità supplementare concessa al caso? Eppure tu hai le idee molto chiare a proposito del tuo lavoro, sai molto bene quali sono le scelte e le inquadrature che preferisci.

C’è un aspetto del mio personaggio, che fa sì che ci si aspetti da me un certo tipo di foto. E per me va benissimo, pazienza se le foto che scelgono non sono le mie preferite. Le foto che preferiamo sono come i bambini che ci hanno dato filo da torcere per crescerli, ci attacchiamo a loro perché ci hanno fatto penare di più. Ma non sono necessariamente le migliori. Qualcuno dall’esterno giudica meglio, dice: Questo fotografo è così, dunque queste sono le foto che lo rappresentano. Bisogna lasciarli fare.

Le foto che preferiamo sono come i bambini che ci hanno dato filo da torcere per crescerli, ci attacchiamo a loro perché ci hanno fatto penare di più.

E anche lasciarli riquadrare?

Pazienza. Sono stato abituato a essere rifilato ai bordi quando lavoravo con dei formati quadrati, che non corrispondevano mai al formato delle riviste. Tu hai sottolineato, giustamente, che sui bordi di queste foto succedono cose che non avevo controllato. Ma è un’imperfezione che accetto, questo dà alla foto un po’ più di… verità? No, non è proprio così…

Di autenticità? Di credibilità? È forse un aspetto che porta lo spettatore a dirsi: Questo fotografo non è molto abile, quindi dice la verità. È così?

Sì, forse. Si vede un tipo che guarda, un altro che si ferma. Non è male così, la foto non è troppo costruita. Lascio la sua parte al caso, è come la parte del povero. Ai pranzi di festa si lasciava una sedia vuota perché, se dovesse arrivare un visitatore inatteso, resti un posto per lui.

In fin dei conti i difetti della Rollei comportavano anche dei vantaggi. Il fatto di tenere la macchina fotografica sulla pancia dava al fotografo un’aria meno aggressiva.

Ci si inchinava davanti al soggetto, come una genuflessione. Mentre con il 24×36 lo metti sulla linea di tiro, o di mira, in piena faccia, e se non sei molto rapido si infastidiscono e ti rifiutano. Me ne rendo conto perché ormai mi fotografano sempre più spesso, è l’attrazione delle rovine, si diventa pittoreschi senza volerlo. E mi rendo conto dell’effetto può fare, un tale arnese puntato su di te. Se ti infili un dito nel naso, poom, il collega non ti manca.

Questa scena di bar è stata fatta con una 6×6? La trovo miracolosa, ci vedo sei, sette, otto linee di forza, non meno che i personaggi. Ci si chiede come hai fatto per accorgerti di tutto questo nello stesso istante.

Forse ero ubriaco. No, in realtà non lo ero. Ecco un’altra scenografia assurda, un gioco completamente idiota. Ma funzionava bene.

Anche la signora riprodotta sul manifesto partecipa alla scena. Se la nascondo col dito…

Sì, mancherebbe un personaggio. È vero che è un miracolo. Era un mondo che conoscevo bene, in cui mi sentivo a mio agio. Prima di fare una foto come questa, bisogna essere accettati, far parte dell’ambiente, venire a bere per delle sere. Fino a quando non ti dimenticano del tutto. Forse era una Rolleiflex, non ne sono sicuro. Ma è una buona foto, giusto quel po’ di casualità che bisogna, e allo stesso tempo l’equilibrio. Un momento felice che ti viene offerto e che non bisogna lasciarsi sfuggire.

Tu ne hai colti alcuni di questi momenti felici. Ma oggi senti il bisogno di esprimerti attraverso la scrittura, come se ci fosse qualcosa di importante che non può esser detta attraverso la fotografia.

Io scrivo come si parla. Tutte le domeniche mattina, scrivo cinque o sei o sette lettere, lo faccio senza difficoltà, è come se quelli a cui mi rivolgo fossero presenti. Ma quando è per essere stampato, la paura mi paralizza. Il mio vocabolario è ristretto, la mia conoscenza della lingua francese ha delle lacune. Mi vergogno all’idea che un dattilografo, in una casa editrice, decifri il mio manoscritto e rida dei miei errori. Ma effettivamente sento il bisogno di scrivere. Forse perché ho ascoltato molto: non è soltanto la vista che funziona quando si vede una foto, c’è anche l’udito, e anche l’olfatto, che potrebbe essere assimilato alla musica, una specie di scorciatoia tra le cose e l’emozione. Quello che spesso mi è mancato è stato di poter registrare queste cose con il mio apparecchio: allora provo timidamente, con la mia povera memoria piena di lacune, a scriverle. Con umorismo, se posso: l’umorismo è una forma di pudore di fronte all’emozione. Quando lo spettacolo è troppo tenero o troppo crudele, ci si rifugia nell’umorismo, questo evita l’impudenza.

Diversi fotografi che stimo provano questo bisogno di esprimersi attraverso un altro mezzo. Cartier-Bresson disegna, Boubat suona il piano, Robert Frank e William Klein fanno cinema. Come se, a un certo punto della loro vita, avessero avuto la sensazione di essere arrivati ai limiti della fotografia.

Forse tutti, verso la fine della nostra vita, proviamo il bisogno di scrivere. È un grande chirurgo, il professor Gosset, che mi ha fatto questa osservazione. Si accetta difficilmente l’idea della propria scomparsa brutale, e si vuol lasciare una traccia, mostrare le cose che ci son piacute. La scrittura, come la fotografia, esprime questo desiderio di sopravvivenza – il titolo del libro di Boubat (La Survivance) non era male. Quando ero bambino, sognavo di fare cinema. Più tardi mi sono accorto che non era possibile, che ci vuole un’autorevolezza che non ho. Ma mi son detto che raccogliere alcune immagini dal vivo poteva essere non meno importante che fare della fiction.

Alcune frazioni di secondo strappate all’eternità, l’hai detto bene.

Mi torna in mente un ricordo di gioventù. Vai in bicicletta con una ragazza, nei boschi. C’è l’odore della brughiera, il vento tra gli abeti, tu non hai il coraggio di dirle che l’ami, ma sei felice, come se ti fossi staccato dalla terra. Poi guardi le nuvole sopra gli alberi, e le nuvole se ne vanno. Tu sai che fra un’ora bisognerà rientrare e che domani sarà un altro giorno di lavoro. Vorresti eternizzare questo momento, ma non puoi farci nulla, bisogna andarsene. Allora fai una foto, è come una sfida al tempo. Forse quella ragazza se ne andrà e non la rivedrai mai più, o la rivedrai cambiata, stanca, umiliata dalla quotidianità, commessa in un negozio, con un caporeparto che le grida dietro. Questo bisogno di preservare un momento mi sembra giustificato, checché ne dica quel prete tedesco di cui parla Gisèle Freund, e che sostiene che l’immagine fotografica è un sacrilegio.

Tuttavia anche lui non aveva del tutto torto. Tu la prendevi sempre la tua Rolleiflex, quando andavi a passeggiare nei boschi con le ragazze? Io non credo che l’attimo possa essere allo stesso tempo vissuto e preservato. Bisogna scegliere.

Sì, noi siamo degli impagliatori di uccelli, è questo il sacrilegio. Ma è un sacrilegio che ci permette di condividere i nostri momenti di felicità con gli altri.

Bisogna dire che questo problema ti concerne meno che altri. Tu non sei uno di quelli che fotografano la moglie mentre partorisce o la madre morente o che si fanno l’autoritratto mentre si masturbano davanti allo specchio.

Quello che mi circonda mi sembra più interessante che mia modesta persona. Io mi considero un osservatore… no, non proprio un osservatore, io non guardo gli altri con la lente d’ingrandimento, come degli insetti… Direi piuttosto un contemporaneo, io vivo allo stesso ritmo che loro, subisco le stesse costrizioni. Ma non andrò a fotografare mia moglie all’ospedale, non mi sembrerebbe bello. E non mi fotograferò nudo davanti allo specchio, non ne ho la minima voglia.

Un altro settore troppo affollato!

Mi chiedo cosa cercheranno i giovani. Nei paesi ad alta densità umana, sono alla ricerca di un sistema che gli permetta di distinguersi dalla massa. Hanno bisogno di qualcosa di ingegnoso, di stridente, che scuota i nervi di un pubblico saturo di immagini. Come quei giapponesi che disegnano delle figure sui seni e sui sederi. Loro nascono con una macchina fotografica in mano, allora, se vogliono essere pubblicati, bisogna che facciano delle immagini scandalose.

Che fare d’altro? È alla tua generazione – e un po’ alla mia – che è stato concesso di scoprire il mondo attraverso la fotografia. Questo non si ripeterà, non si rifà il viaggio di Cristoforo Colombo. A che scopo rifotografare la tua periferia?

Quella che ho fotografato io è scomparsa.

Ma anche se fosse ancora là non ci sarebbe nessuna ragione per fotografarla. Non c’è più bisogno di cacciare – o di pescare – quello che già si possiede. Forse sta proprio qui il sacrilegio. Come guardare oggi la periferia parigina, senza pensare Doisneau? È vero che una nuova periferia si è sovrapposta alla vecchia, ma allo stesso tempo la capacità di meravigliarsi si è consumata. Quando tu hai portato le tue stampe a Cendrars, lui doveva essere meravigliato, certamente ti ha detto: Non ho mai visto foto di questo genere. Oggi cosa puoi mostrare senza che ti si risponda: Sì, lo conosco?

È vero che la nostra sensibilità si è indurita. Ma ci sono dei modi nuovi di vedere le cose. Per esempio i colori dei tuoi personaggi, che ricordano i colori della pittura. Il colore può portare delle novità.

Allora se il diavolo ti proponesse, come a Faust, di ricominciare da zero, che faresti?

Non lo so. C’è questa parola: Già. Già la vita è passato, così in fretta, malgrado tutte le grane, tutti i momenti che non si vorrebbero assolutamente rivivere. È comunque passata – già. C’è un momento in cui si accetta di scomparire. Non tocca a me immaginare, tocca a loro, che se la sbrighino, accidenti! Forse c’è ancora modo di fare altre immagini, diversamente. Le mie foto attuali di Saint-Denis sono piuttosto diverse da quelle fatte per Cendrars: ho voluto suggerire più che descrivere. In futuro, potrebbero essere ancora più suggerite, per degli spettatori ancora più evoluti, ma senza cadere nell’inquinamento della pubblicità, che è il maggior pericolo, né nello stridore della televisione. Prima dell’agricoltura c’era stata la raccolta, ciò che io ho fatto in fotografia era raccolta. Dopo la raccolta c’è stato l’allevamento, le foto in studio sono allevamento. Forse nel futuro si faranno immagini ben confezionate, con tutta una scienza della sensibilità del pubblico, si potranno calcolare i costi, un computer darà un po’ più luce qui, un po’ meno là, e si avrà un prodotto immediatamente digeribile. Ma non è una cosa che fa per me. Io ho dato quello che avevo da dare.

Parigi, novembre 1987
Traduzione italiana di


Fonte: https://www.maledettifotografi.it/fotografi/feed/


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