Secondo te, tutto ciò che compare in una foto sarebbe un’espressione – conscia o inconscia – di chi fotografa.
Sì, inevitabilmente, se la foto è un lavoro personale, e non un incarico. Anni fa, quando soffrivo di una depressione, un’amica mi ha regalato un libro che pensava che avrebbe potuto aiutarmi: Gestalt Therapy Verbatim. L’autore, Frederick Perls, dirige dei seminari sui sogni. Se un partipante racconta, per esempio, un sogno in cui s’è visto bambino, in fuga davanti a qualcosa, Perls gli chiede: “e che t’ha fatto fuggire?”. Se quello risponde “il buio”, Perls chiede: “E che ti dice il buio?” Ma l’essenziale dell’insegnamento di Perls si manifesta nella domanda seguente: “E tu che gli rispondi, al buio?” E Perls poi spiega: “Tu sai quello che il buio ti dice, perché il buio fa parte di te: ogni dettaglio del tuo sogno fa parte di te, poiché sei tu che l’hai inventato.” Per le nostre foto è la stessa cosa, tutto quello che vi compare parla di noi: il soggetto che ci ha attratto, l’angolazione cha abbiamo scelta, l’inquadratura, la focale, le relazioni tra gli oggetti. Ogni nostra manifestazione è un autoritratto – o il frammento d’un autoritratto. Quando uno studente mi dice: “Vorrei imparare ad esprimermi”, io gli rispondo: “Mostrami piuttosto come potresti non esprimerti, o esprimere altro che te stesso!”
Ma una foto non è come un quadro, in cui ogni dettaglio viene dalla mano del pittore. Il negativo registra anche tutto quello che abbiamo lasciato passare, intenzionalmente o no, magari solo per distrazione. I suoni di fondo come la musica.
Nulla di ciò che scegliamo è scelto a caso. Ci sono livelli di coscienza, in noi, che percepiscono più di quanto crediamo percepire. Parlo “col mio occhio destro”, beninteso.
Col tuo occhio destro?
Sì, parlo come qualcuno di cui l’occhio dominante è il destro – e dicendo “dominante”, non voglio dire il più forte o il più sano. Una persona mancina direbbe il contrario, direbbe per esempio che quello che conta è la struttura.
Ma perché l’occhio destro e l’occhio sinistro?
È un mistero che non è stato ancora chiarito. Ma si sa che la dominanza d’un occhio, il destro o il sinistro, è un elemento importante della psiche, che non determina solo ciò che vediamo, ma anche come lo vediamo e quali emozioni suscita in noi. Nel mio caso, è l’occhio destro che domina: potrei fotografare con l’occhio destro anche a testa in giù, tutto mi sembrerebbe al suo posto. Invece quando guardo nel mirino con l’occhio sinistro, sento il bisogno di raddrizzare le verticali e di avere angoli a 90°. Quando qualcuno mi parla della sua famiglia, o di politica, o di qualsiasi altro argomento, so immediatamente qual’è il suo occhio dominante.
Ma si sa che la dominanza d’un occhio, il destro o il sinistro, è un elemento importante della psiche, che non determina solo ciò che vediamo, ma anche come lo vediamo e quali emozioni suscita in noi.
Quello che dici m’interessa per una ragione personale: io ho sempre fotografato con l’occhio sinistro, fino a quando quest’occhio ha dovuto essere operato, prima di una cataratta, poi di una complicazione più grave. I chirurghi sono riusciti a salvarlo, però lui non ci vede più abbastanza per mettere a fuoco – e dunque devo utilizzare il destro. Dapprima temevo che l’altro non avrebbe saputo vedere e comporre altrettanto bene, ma in fin dei conti ci riesce, tanto che nessuno ha notato una differenza tra le mie foto di prima e quelle di adesso.
Questo può dipendere dall’intensità della dominanza. Ci sono persone ambidestre, che sanno utilizzare l’una o con l’altra mano – tranne per scrivere.
Devo dire che spesso la questione mi preoccupa. A volte mi pare che l’occhio destro mi trasmette ciò che vede nel mirino, ma con una carica emotiva meno intensa. Ma sono sensazioni soggettive, non oserei trarne una conclusione.
È proprio quello che volevo dire: non è il tuo “vero” occhio destro. Io non conosco tutti i dettagli della teoria, ma so che le implicazioni sono profonde. Anche mio figlio Alex – come me – aveva l’occhio destro dominante, ed eravamo effettivamente sulla stessa lunghezza d’onda, percepivamo le relazioni allo stesso modo, emozionalmente più che coll’intelletto.
Eppure il mio caso proverebbe piuttosto il contrario. Io ho l’impressione che il mio occhio destro è più sensibile alle strutture, e meno alle emozioni.
Forse perché vede attraverso la tua psiche d’origine: non “si sente” destro, non è più connesso come lo era all’origine.
Sì, forse si è riconnesso da quando me ne servo di più, le connessioni si adattano. Ma per tornare al nostro soggetto iniziale: io non sono affatto convinto che tutto ciò che appare in ogni nostra foto sia un’espressione di quello che siamo. Fotografiamo tante cose di cui non ci rendiamo conto!
È proprio quello che cerco di dire! Ma le notiamo a un certo livello del nostro inconscio. Anni fa, ho esposto a New York una serie di foto che avevo intitolato “Flash-forward” – l’opposto di flash-back. Le avevo scattate in periodi diversi – fino a quindici anni prima – ma non le avevo mai scelte né stampate, come se, al momento dello scatto, non avessero alcun nesso con quello che credevo vedere. Poi, all’improvviso, mi hanno colpito – davvero come un pugno in faccia. Noi percepiamo molto più di quanto crediamo percepire: solo quando ho permesso alla mia coscienza di raggiungere la mia intuizione, queste foto sono diventate significative. Qualcosa di simile è successo a mio padre, verso la fine della sua vita, quando aveva ormai perso la visione centrale e non poteva più suonare. C’era una serie di registrazioni, fatte quindici o vent’anni prima, di cui aveva sempre rifiutato la diffusione, perché non ne era del tutto soddisfatto. Le riascoltava ogni tanto, ad anni d’intervallo, ma manteneva sempre il suo veto. Fino al giorno in cui, improvvisamente, cambiò parere prima su una, poi su un’altra. Quando gliene chiesi il motivo, mi spiegò che all’epoca il modo in cui “veniva fuori” non gli piaceva – ma che se ora avesse potuto suonare quel pezzo, lo avrebbe suonato proprio così.
Anch’io ho esplorato dei vecchi provini per farci delle scoperte, ma con scarso successo. Forse perché sono ostinato nei miei giudizi.
È il tuo occhio sinistro! Io invece scopro spesso, nelle mie foto, dettagli che non avevo notato al momento dello scatto, e senza i quali la foto sarebbe meno interessante, o del tutto priva di interesse. Come quella dell’orfanotrofio, con la monaca che ripara una bambola. A destra c’è un paio di scarpe da bambino, messe a forma di croce, che non avevo notato, ma senza le quali la foto non sarebbe la stessa. Un orfanotrofio e delle scarpe vuote disposte a croce! Non avrei saputo immaginarlo! Ma son sicura che, inconsciamente, le ho percepite. Non siamo noi che prendiamo le foto, sono loro che ci prendono, a volte è come se un’immagine mi pigliasse per il collo e mi obbligasse a reagire. Fare una foto è come ritrovare un pezzo di sé in una qualche parte nel mondo, dei frammenti di sogno o di realtà che finiscono per costituire un autoritratto. Mi infastidisce un po’ quando parlano del mio lavoro come di una “creazione”, mi pare piuttosto di interpretare una musica che è dappertutto, che è offerta a chiunque, ma che la mia interpretazione rende personale. Come quando mio padre suonava Chopin. Ogni fotografo ha un suo modo di isolare le cose, come se ponesse una firma sul proprio sguardo.
Io invece scopro spesso, nelle mie foto, dettagli che non avevo notato al momento dello scatto, e senza i quali la foto sarebbe meno interessante, o del tutto priva di interesse.
Per me il soggetto principale della fotografia è il tempo. Una foto non è tanto una descrizione di oggetti, di persone o di luoghi, quanto la percezione di un istante, che è stato e che non tornerà mai più. Una foto che potrebbe essere rifatta non è una buona foto. Mi ci fanno pensare le tue: ciascuna racconta un momento unico, anche quando mostra solo una stanza quasi vuota, in cui avresti potuto tornare a qualsiasi momento.
Non si torna mai indietro – ed a questo proposito ho da raccontarti una storia. Qualche anno fa, durante un seminario, mi sono legata intensamente a qualcuno. Questa persona è dovuta partire prima di me. Qualche minuto dopo la sua partenza ho fatto delle foto nella stanza in cui eravamo stati insieme. Non avevo treppiede ed ho dovuto lavorare a un quarto di secondo, a mano libera. E in più ero emozionata. Due giorni dopo, guardando i provini, ho trovato che la foto non era molto nitida. Dunque sono tornata in quella stanza, con un treppiede e con l’animo più calmo. Tutto era come la prima volta, l’ora, la luce, la disposizione degli oggetti. La seconda foto è nitida – ma completamente sterile. Le ho mostrate entrambe a diverse persone, senza dire nulla, e tutte hanno preferito la prima. Senza dubbio perché la seconda non contiene emozione, nulla succede in me, al di fuori della ricerca di una “buona” foto.
Sei sicura che la differenza non sia solo nella tua immaginazione?
È stata la reazione degli altri a farmi pensare a una differenza. E nessuno ha saputo spiegarla, una sola persona ha notato la mancanza di nitidezza. Per me, questo prova che l’impatto emotivo di una foto dipende dal “prezzo emotivo” che si paga. Potrei raccontarti altre storie su questa foto, ma quella che preferisco è la seguente: la foto faceva parte di una mostra personale, insieme ad altre 129. Alla fine della mostra, ho voluto esprimere la mia gratitudine a due delle organizzatrici, proponendo loro di scegliere ciascuna una stampa. Preciso che le mie foto non hanno titoli e che queste donne ignoravano le circostanze in cui le avevo scattate. Una ha scelto la foto d’un letto disfatto, l’altra – una persona molto intellettuale, professoressa universitaria – ha scelto questa. Dovevo sembrarle sorpresa, perché ha aggiunto, come spiegazione: “Mi fa venir voglia di fare l’amore.” Tra centotrenta foto, queste persone hanno scelto le due che effettivamente sono state scattate dopo aver fatto l’amore! Dev’esserci qualcosa che veicola questo messaggio – eppure la foto di cui parlo mostra solo alcuni dettagli di un interno!
Ci vorrebbe un’analisi semiologica…
Dio ce ne scampi! Si può spiegare la musica? Se tu sapessi fare un’analisi semiologica di Mozart, saresti Mozart! Meno male che ci sono ancora dei misteri, se no non ci sarebbe più arte! L’arte, è quando certe cose “funzionano”, anche se sono teoricamente o tecnicamente sbagliate, semplicemente perché portano la carica emotiva di un momento. È proprio questo che ha fatto impazzire il povero Salieri. Ma tu cosa ci vedi in questa foto?
Se devo proprio essere sincero, non è una foto sulla quale mi soffermerei.
Ma vedi una differenza tra le due?
La differenza di nitidezza non mi colpisce. Vedo che una è stata scattata un po’ più dall’alto, di modo che l’angolo della porta sembra più acuto. Per usare la terminologia di Barthes, mi pare che quest’angolo sia il “punctum”.
La tua reazione è tipica di un occhio sinistro, ma quello che dici dell’angolo è vero. Non ci avevo mai fatto caso.
Vedo anche una terza differenza: nella prima foto la macchia di luce è più intensa, ed è probabilmente questa macchia di luce che ha indotto la tua reazione emotiva. In tal caso sarebbe questo il “punctum”. Resta da chiedersi perché hai riconosciuto la tua emozione in questo dettaglio piuttosto che in un altro.
Non ne ho la minima idea. Per quanto riguarda l’intensità della macchia di luce, potrebbe venire dalla stampa. Tutto quello che so è che al momento di scattare ero emozionata e in pena per una separazione. Ma perché l’ho espresso mostrando un raggio di sole su un vecchio parquet, un frammento della porta del bagno e il disotto di un comò? Perché non il letto o la finestra?
Eri emozionata e il logico sfogo della tua emozione era di fotografare, dal momento che sei fotografa e che ti trovavi in un seminario di fotografia. Dunque hai cercato col tuo mirino…
Non cerco mai col mirino, non lavoro in questo modo. Prima qualcosa mi colpisce e solo dopo prendo la macchina fotografica.
Dunque hai visto l’angolo della porta e il raggio di luce, e la tua emozione ha riconosciuto qualcosa che la tua coscienza non avrebbe saputo definire. Quando sei tornata, due giorni dopo, a mente fredda, questi significanti emotivi non ti colpivano più. Ti sei dunque concentrata sulla nitidezza e su altri dettagli, secondari per l’emozione. Nella seconda foto questi dettagli acquistano importanza, a detrimento dei significanti emotivi. Tutto questo è affascinante, stiamo parlando del problema centrale della fotografia: in quale momento scattare?
E perché scattare? Nei miei seminari chiedo spesso: “Quali sono le foto che non avete fatto? E perché non le avete fatte?”
E tu che risponderesti a questa domanda?
Mi capita di vedere cose, di cui so che, se le fotografassi, le distruggerei. Per esempio una rete di relazioni tra persone che vedo per strada, e che interromperei sei mi avvicinassi con l’apparecchio.
E se tu potessi fare la foto prima di interromperla?
Sarebbe come un furto. A volte sento che un passo di più distruggerebbe quello che avviene tra loro. Allora preferisco rinunciare alla foto e conservare questo momento nella mia memoria.
E se tu potessi fare la foto senza essere vista, come attraverso una vetrata a specchio?
Non so se lo farei, ma non mi piace parlare in termini di regole. E tu che faresti? Guardando le tue foto di New York, ho notato che spesso fotografi persone che non ti vedono: che hanno gli occhi chiusi, che si nascondono sotto un impermeabile o che si avvolgono in teli di plastica. Non li affronti mai faccia a faccia.
È vero. Persino in studio, dove la collaborazione delle modelle è di regola, mi sembra che una foto debba essere rubata. Le tengo occupate in un modo o in un altro, per esempio proponendogli di assumere un ruolo, ma ciò che prendo non è mai quello che loro credono di dare.
L’idea di prendere mi mette a disagio, per me le persone non sono fatte per essere prese. In questo non sono d’accordo con Diane Arbus, né con Lisette Model, che pure è stata la maestra di Diane e la mia. Loro si arrogavano il diritto di fare qualsiasi cosa, con chiunque, in nome della loro “arte”. Io rifiuto quest’idea, forse per contrasto a certe persone che hanno avuto un ruolo importante nella mia vita, e che ponevano le loro esigenze “d’artista” al di sopra di tutto. Per me, gli esseri umani sono più importanti dell’arte. Mi sembra che quando Diane fotografava quei nani, quei nudisti o quei freaks, lei prendeva sempre un po’ più di quanto queste persone offrivano di loro spontanea volontà – a little pound of flesh more, una libbra di carne in più – forse perché questo le dava un senso di potere.
L’idea di prendere mi mette a disagio, per me le persone non sono fatte per essere prese. In questo non sono d’accordo con Diane Arbus, né con Lisette Model, che pure è stata la maestra di Diane e la mia.
Forse hai ragione, ma per me Diane è stata come una santa, e sono sempre stato disposto a giustificare tutto quello che faceva. Ma quando guardo la tua foto di questa vecchia, mi dico che anche tu devi aver avuto dei momenti di santità, se no non ti saresti sentita in diritto di farla.
Questa foto è effettivamente carica di sofferenza. Avevo viaggiato da sola per tre settimane, attraverso gli Stati del Sud e i monti Appalachi, con un’automobile così vecchia che non potevo neanche chiuderla a chiave. Una notte, in una cittadina del Tennessee, trasportai tutta la mia attrezzatura e i miei bagagli fino al secondo piano dell’albergo. Una precauzione stupida, perché già da anni avevo problemi di schiena e lo sforzo mi fece rompere due vertebre. L’indomani ripresi la strada per New York, malgrado un dolore così intollerabile, che per accelerare o frenare dovevo reggermi la gamba con una mano. Nel Kentucky si mise a piovere così forte che non c’era più visibilità. Fermai la macchina e il caso volle che fosse davanti ad un ospizio, in cui entrai zoppicando e sperando di trovare un analgesico. Non ne avevano, ma guardandomi attorno vidi questa donna e chiesi il permesso di farle qualche foto. Non so se fosse cosciente, a momenti ridacchiava come una bambina e un attimo dopo si metteva ad ululare. Mi sono chiesta se avevo il diritto di fare quello che facevo, non mi piace fotografare persone che non lo accettano. Credo che non lo avrei fatto se non fossi stata anch’io in una condizione di estrema sofferenza. Ma quella volta l’ho fatto. Qualche settimana dopo, ho inviato una stampa alla responsabile, per chiedere il permesso di pubblicare la foto. Non hanno fatto difficoltà, e sembra anzi che qualcuno della sua famiglia abbia detto: “Ma guarda! È proprio tipico della vecchia Mathilda!” Pare sia morta poco dopo il mio passaggio, e credo di averla fotografata con rispetto, anche se non ho potuto farle comprendere quello che facevo. Mi fa pensare alla poesia di Dylan Thomas, a proposito di suo padre morente: “Do not go gentle into that good night / rage, rage against the dying of the light.”
Dunque è stato effettivamente un momento di santità.
Non so cosa intendi con questa parola, non sono esperta di santità. Ma credo che non bisogna dare meno di quanto si riceve.
Lo vedo in alcuni dei tuoi ritratti, le persone guardano il tuo obiettivo come se si aspettassero una carezza.
Vorrei che tutti i miei ritratti avessero questa qualità, perché è effettivamente quello che vorrei dare, in un certo senso, alle persone che fotografo. Non voglio che la mia macchina fotografica sia uno strumento d’aggressione o di potere. Non so se pubblicherai questa registrazione tale e quale, ci sono cose che vorrei dire e che non so come verranno fuori… Una volta, qualcuno mi ha detto che facevo l’amore come un uomo, ed io ho risposto: “No, faccio l’amore come una persona.” Non credo che quello che me l’ha detto mi trovasse aggressiva, ma non era abituato a donne che partecipano. Io ho bisogno di partecipare, in fotografia come in amore. Ho bisogno che una parte di me divenga l’altra persona. Dopo una seduta fotografica come la intendo io, mi sento come se avessi fatto l’amore per un giorno intero, spossata, appagata e sul punto di crollare. È anche per questo che non so fotografare il primo venuto, che riesco così male a far lavori su commissione: è come dover far l’amore con qualcuno che non si è scelto. A volte vorrei che la macchina fotografica scomparisse, per fotografare solo con i miei occhi o col mio corpo. Fotografare può essere davvero come far l’amore: talvolta mi capita di tremare come una foglia. Ho un amico fotografo per il quale provavo un sentimento molto intenso – ma da cui non volevo farmi coinvolgere. Ho fatto il suo ritratto, e durante la seduta lui ha osservato: “È la prima volta che vedo un fotografo per cui l’apparecchio sembra un ostacolo” – ed era proprio così!
Anche per me la fotografia può essere sensuale e sessuale. Ma se per te è come carezzare qualcuno che ti guarda, per me… Conosci un romanzo giapponese che si intitola La casa delle belle addormentate? È la storia di un bordello per vecchi: trascorrono la notte accanto a delle ragazze addormentate, che però non hanno il diritto di penetrare.
Una situazione senza rischi!
È uno dei romanzi più sensuali che io conosca.
Per un uomo. È una idea maschile della sensualità.
Quello che cerco è forse un po’ come in quel romanzo. Ma tu dovresti capirlo, non ti hanno detto che fai l’amore come un uomo? Non ti piacerebbe fotografare persone che dormono?
Ci ho pensato ed ho anche chiesto ad alcune il permesso di farlo, ma alla fine ci ho rinunciato. Mi sembrerebbe di utilizzare un essere umano come un oggetto. Non mi piace agire quando l’altro non può reagire, sarebbe come far l’amore con una cosa inanimata. D’altra parte, l’osservazione sul mio modo di far l’amore non era mia, mi era stata fatta molto tempo fa, da uno che era un “macho” nel senso peggiore della parola.
Eppure mi chiedo se i momenti più belli dell’amore – ed anche della fotografia – non contengano necessariamente una parte di malinteso, o quanto meno d’illusione.
Mi rifiuto di crederlo. Ho subito troppe illusioni che mi sono state imposte, da persone che mi vedevano diversa da quello che sono. È un gioco terribilmente destrutturante, benché capisco che ci si possa lasciar prendere, per facilità o perché non si sa resistere alle lusinghe. Ma finisce sempre male, si finisce per non sapere più chi si è. È un gioco che non voglio subire mai più, né tantomeno farlo subire ad altri.
Ma può esserci amore – o fotografia – senza una parte d’illusione? Per me, fare una foto di nascosto può essere come accarezzare qualcuno in un sogno. Se la persona alza lo sguardo verso la macchina fotografica, il sogno svanisce.
Così ti proteggi. Perché a te l’identificazione con un altro sembra un rischio.
Quando fotografo in strada, capita che le persone se ne accorgano. Allora guardo altrove e me ne vado. Non per paura di loro e neanche per un rifiuto di identificarmi con loro, ma perché è come se potessi vederli solo a condizione che loro non mi vedano: proprio come attraverso un vetro a specchio.
Perché vuoi essere solo a decidere, e perché questo ti dà un senso di potere. Il loro sguardo è una richiesta, alla quale tu forse non hai voglia di rispondere. A me non piace fotografare le persone in strada. Forse è anche per paura di farmi scoprire, ma preferisco credere che sia soprattutto per non prendere ciò che gli altri non sono coscienti di dare. Forse c’è un po’ dell’uno e dell’altro, non si è mai sicuri delle proprie motivazioni. Una volta, scendendo sulla Diciannovesima strada, ho notato una grossa negra che dormiva sul marciapiede, davanti ad un negozio chiuso. Ho sentito un bisogno irresistibile di fotografarla, senza sapere perché, non avevo mai fatto una foto simile. Ma è stato più forte di me: mi sono inginocchiata sul marciapiede, ho fatto alcuni scatti, molto lentamente, poi ho preso un respiro profondo, mi sono rialzata e sono ripartita. Come se di proposito avessi corso il rischio che si svegliasse e mi scorgesse. Ma non potevo fare altrimenti, non tanto per l’angolo di ripresa – avrei anche potuto accovacciarmi – quanto perché bisognava che fossi in ginocchio…
Anch’io, quando scatto una foto di nascosto, provo un pizzico di cattiva coscienza! È forse una delle ragioni per cui, a New York, riesco a fotografare solo quando fa eccessivamente caldo o eccessivamente freddo: come se sentissi un bisogno di punirmi.
E se non mi fossi rotta le vertebre il giorno in cui ho fotografato la vecchia del Kentucky…
… non ti saresti sentita in diritto di farlo!
Neanche adesso so se ne avevo il diritto. Ma so che non l’ho fatto alla leggera.
Piuttosto che “cattiva coscienza”, avrei potuto dire “disagio”. Quando queste forme nel mirino, che cerco di comporre e di rendere nitide, alzano improvvisamente lo sguardo verso di me, mi sembra che esprimano un’attesa che non ha nulla a che vedere con quello che io stesso cerco di fare.
È proprio quello che mi sforzo di dirti. È questa la nostra difficoltà e la sfida che dobbiamo affrontare: guardare il mondo attraverso questo strumento meccanico, questi pezzi di vetro e di metallo, e riuscire a vedere delle persone; non dimenticare mai che queste “forme” nel nostro mirino sono esseri umani. Il rischio che prendiamo, l’attesa da non dobbiamo deludere è di trovare una contropartita a questo metallo, a questo strumento, a tutta questa meccanica. Se no sarebbe troppo ingiusto!
È come se ci fosse sempre un vetro a specchio: il mirino.
Eva Rubinstein : Sì, il mirino si interpone tra noi e la realtà e ci disconnette da essa. È il gran pericolo di questo mestiere: onde la mia avversione per la macchina fotografica. L’ho sentito molto intensamente una volta, in Irlanda del Nord, in una situazione potenzialmente pericolosa, la gente lanciava pietre e la polizia rispondeva con bombe lacrimogene e pallottole di caucciù. All’inizio ho avuto molta paura, ma quando mettevo l’occhio al mirino la paura svaniva, era come guardare uno schermo televisivo. Una cosa un po’ simile m’è successa quando ho partorito il mio secondo figlio: avevano appeso uno specchio sopra il letto, affinché potessi vederlo quando usciva, e naturalmente io guardavo, con una curiosità così grande che non mi concentravo più, come avrei dovuto, sulla mia respirazione. Avevo dimenticato che guardavo me stessa, mi ero disconnessa dal mio proprio parto! Alla fine ho fatto togliere lo specchio e ho continuato il mio travaglio.
La differenza tra noi, è che io auspico la disconnessione. È la differenza tra l’approccio romantico e l’approccio classico.
Capisco, se utilizzi questi termini nel loro significato storico. Ciascuno di noi cerca di dire all’altro chi lui è. Il mio ideale, in fotografia, sarebbe di avere, con i modelli, lo stesso rapporto che mio padre aveva con la musica. Al pianoforte, mio padre diventava la musica, mentre invece nella vita gli capitava di interpretare una parte. Aveva una relazione umana e personale con ogni singola nota, un rispetto per la partitura, che non deformava mai per ottenere un effetto in più, un senso profondo della struttura musicale. In quei momenti, lo trovavo persino commovente: perché lo sentivo aperto e vulnerabile, nonostante tutto il suo controllo e la sua tecnica. Nella situazione fotografica, noi fotografi abbiamo sempre un vantaggio sulla persona che ci sta di fronte, perché siamo noi che decidiamo di scattare. Supponiamo che questo vantaggio sia di 90 a 10. Io cerco di avvicinarlo, per quanto è possibile, a un rapporto di 50 a 50 – o, quanto meno, di 52 a 48. Quando dico “identificarmi col modello”, non voglio dire solo “riconoscermi in lui”, ma anche “uscire da me stessa per incontrarlo a metà strada” o “aiutarlo ad uscire da sé per incontrarmi”. La fotografia è il risultato di un tale incontro, è un fenomeno bipolare, come una scarica elettrica. Se uno dei fili è interrotto non succede nulla. Se non accetti di renderti vulnerabile, non puoi chiedere che l’altro lo diventi, e non hai nessun diritto di fare quello che fai. Il tuo atto di fotografare sarà solo un piacere da voyeur, un esercizio gratuito di potere, una violazione dell’intimità altrui. Quando mi son messa in ginocchio davanti a quella donna addormentata, l’ho fatto per provare che anch’io assumevo un rischio: quello di avere l’aria d’una stupida, o peggio di farmi aggredire da lei se si fosse svegliata. Non potevo espormi più di così. Credo che un tale comportamento finisca per far parte della nostra foto, e che anche uno spettatore che non ci conosca ne percepirà qualcosa.
New York, April 1987
Traduzione italiana di