Efrem, dici di essere trasversale ma non eclettico, inattuale e non contemporaneo. Che cosa sei?
Non ne ho la più pallida idea. Mi preoccupo da sempre di una sola cosa: fare fotografia. E le fotografie per me sono uno strumento, non un fine.
Sei riconosciuto come ritrattista.
È una definizione che mi sta un po’ stretta.
Sì, ma dobbiamo pur partire da qualcosa. Per una parte del tuo percorso hai fotografato personaggi molto noti. Hai mai avuto la sensazione che stessi fotografando una serie di nomi più che di persone?
Diciamo anche famosi, non è così grave… Mai. Tieni presente una cosa: ho fotografato Pupo. Questo è un punto fondamentale per chi fa fotografia di ritratto. Quando ritrai, stai ritraendo te stesso. Ma siccome può capitare che quel personaggio, così come altri, non ti riguardi da un punto di vista musicale o culturale, non puoi pensare di fotografarlo in modo diverso, con sufficienza o con distanza. Il ritratto è un percorso complesso che ha che fare con un fatto determinante: il vero soggetto è l’autore, non la persona che hai davanti. Ed è la tua faccia che mostri, la firma è la tua: il nome della persona che hai davanti è solo un dettaglio.
Il ritratto è un percorso complesso che ha che fare con un fatto determinante: il vero soggetto è l’autore, non la persona che hai davanti.
Il ritratto, nonostante spesso rientri tra i lavori commerciali, è un momento di forte ricerca per l’autore.
Assolutamente sì. A volte si semplifica e si parla troppo di genere, ma la fotografia di ritratto è fotografia pura, e non ha nulla a che vedere con la riconoscibilità del soggetto. Si ha la tendenza, quando si guarda un’immagine, di individuare al suo interno un soggetto e di concentrarsi su quello. Ma il soggetto è la fotografia in tutto il suo insieme, tutto ciò che sta all’interno di quel perimetro è il soggetto. Per questo non ha alcuna importanza che si tratti di una persona più o meno nota, non ha alcuna importanza il nome di quella persona. Tra l’altro, non distinguo tra commerciale e chissà cos’altro: a me interessa la cifra espressiva dell’autore, la potenza dell’immagine. Non la destinazione d’uso.
Hai mai fatto un ritratto senza partire dal volto?
Spesso. Ho messo Philippe Starck sotto il pluriball, per esempio. Quella è una fotografia fatta a Parigi negli anni ’90. Era un servizio su una chaise longue che aveva disegnato e a me venne l’impulso di impacchettarlo e di prepararlo per essere spedito.
Le fotografie che vanno in pagina sulle riviste sono quelle scelte, perfette e finite?
Se intendiamo le pagine dei magazine, si deve tenere conto della gabbia e della struttura grafica. Della carta e di altri fattori legati al medium. Paradossalmente c’era molto più rispetto per la fotografia e il suo autore quando le riviste contavano davvero. Adesso è quasi un terno al lotto.
Quanto al concetto di perfezione in generale: il linguaggio è imperfetto. Se fosse perfetto, avremmo sempre lo stesso risultato indipendentemente da chi è l’autore. La perfezione non esiste, esiste invece un percorso che ti riguarda e che riesci a declinare nelle varie circostanze che affronti.
Il linguaggio è imperfetto. Se fosse perfetto, avremmo sempre lo stesso risultato indipendentemente da chi è l’autore.
E tu credi che ai lettori arrivi sempre il tuo pensiero o pensi che ci sia una distanza tra ciò che tu hai progettato e ciò che noi comprendiamo?
Non mi interessa assolutamente nulla di come viene recepita la fotografia che faccio. Mi interessa produrre una fotografia che mi riguarda e con la quale è mia intenzione coincidere. Il lettore può leggere cose differenti e questo non mi crea alcun problema. Ma mi interessa una cosa: all’interno di una fotografia esiste un elemento che riconduce all’autore? A me interessa che i percorsi tracciati dalle mie singole fotografie riconducano ad una cifra espressiva riconoscibile.
So che una volta hai fatto un gioco con un libro di Avedon.
Sì, Avedon, un’autobiografia. Didascalia e icona di ogni soggetto stampata alla fine del volume, non sulle singole pagine. Sfogliando il libro, cercai di intuire il nome del soggetto ritratto senza guardare le didascalie in fondo. E mi è capitato di indovinarne parecchi, pur non avendoli mai visti prima. Non so dire che cosa ci fosse in quelle fotografie ma, se sai leggere e se sei figlio di questo mondo, ovvero anagraficamente contemporaneo, riesci ad intercettare alcuni elementi in modo preciso. Resta che non so darmi una spiegazione.
Un fotografo si occupa del mondo contemporaneo o della propria storia?
Parlo del mio caso. La fotografia mi permette di poter raccontare, attraverso i soggetti, la mia storia. Esiste una indubbia autoreferenzialità.
Autoreferenzialità non è una parola negativa?
Non necessariamente.
Resta il fatto che il fotografo deve avere un’opinione sul mondo, una propria visione.
Oggi più che in qualsiasi altro periodo, il fotografo deve avere una visione del mondo. Non deve necessariamente pronunciarsi dal punto di vista politico o sociale, la contemporaneità non è la lettura dell’attualità, ma una visione del mondo devi averla. Se sei un fotografo non puoi sottovalutare alcune cose. Non devi sventolare una bandiera, ma io devo riconoscere il tuo sguardo sul mondo.
Oggi più che in qualsiasi altro periodo, il fotografo deve avere una visione del mondo.
C’è un grosso equivoco sulla parola contemporaneità. Essere contemporaneo non significa occuparsi dei fatti in agenda.
Se hai una visione di questo tipo, sei fregato.
È normale che un giornale chieda in modo esplicito, ai propri lettori, di mandare le foto di un fatto di cronaca?
Il vero differenziale non è il cosa fotografi, ma il come lo fotografi. E quindi non è normale che i periodici o i quotidiani cerchino, per un puro fatto economico, di utilizzare la rete per ottenere immagini. Credo che oggi il reportage abbia senso se diventa qualcosa di più intimista, e se è in grado di raccontare più il fotografo che non ciò che è accaduto, anche perché quello che è accaduto lo sanno già tutti.
Il reportage, il fotogiornalismo, possono finalmente interpretare una verità?
Possiamo parlare ancora una volta, dopo anni, del miliziano di Capa. Per quel che mi riguarda, non ha alcuna importanza se quella fotografia è la cronaca dell’uccisione del miliziano. L’equivoco è che, in qualche modo, si pensa che il fotografo che si occupa di reportage si misuri con la verità. Questo è falso, perché non si misura mai con la verità assoluta, si misura con una verità relativa. È molto probabile che Robert Capa abbia visto decine di volte quella scena senza mai fotografarla. Può essere quindi che quella foto nasca da un percorso reale, e che sia un’icona in grado di esemplificare molto bene che cosa è la guerra. Non sarà una “foto vera” ma è veritiera.
Torniamo in qualche modo alla seconda domanda di questa intervista. Qualche settimana fa, hai scritto . L’attenzione non cadeva sui nomi, ma su un lungo elenco di motivazioni personali e culturali.
Quella lista contiene tutte persone impossibili da fotografare perché ormai sono morte. Ma ognuna di loro ha, in vari modi, influenzato il mio percorso. Sono dei desiderata un po’ particolari. In quella lista c’è tutta la potenza espressiva che, sotto varie forme, ogni giorno mi riguarda.
Di un fotografo ti interessa la biografia o l’opera?
Non mi interessa la biografia dei fotografi, così come quella di chiunque altro. A volte può essere una conferma, a volte una smentita, ma in tutti i casi la biografia viene dopo. Quello che vedo e che mi importa è ciò che ognuna di queste persone ha prodotto. Parlavamo delle celebrities, non è il numero delle persone che hai ritratto che determina il tuo peso specifico, è come hai fotografato queste persone.
La fotografia è democratica, c’è spazio per tutti?
No. È pura demagogia pensare che la fotografia abbia a che fare con la democrazia. La fotografia è arbitraria, e l’arbitrio è determinato soltanto dall’autore. È stata sostituita la parola massificazione con la parola democrazia, in realtà è soltanto un paravento di chi ha interesse a dire che la fotografia è democratica, perché chiunque possa produrre fotografie e quindi chiunque possa utilizzarle. Senza alcun peso specifico né criterio: un blob informe.
Il fatto che il mezzo, lo strumento ottico sia diventato uno oggetto domestico al pari di un frullatore, non significa che si frulli tutti allo stesso modo.
L’altro equivoco è pensare che in fotografia non esistano confini, che si possa lavorare su un tema libero ed ottenere buoni risultati.
I confini e la committenza sono un elemento fondamentale perché ti permettono di elaborare un tuo percorso all’interno di una serie di paletti che ti portano a crescere. I confini sono indispensabili per focalizzare il tuo percorso. L’editoria periodica ha avuto per anni questa funzione, finché non è andata in crisi. Serviva a dare dei confini al percorso di un fotografo, e questo gli permetteva di esprimere al meglio il proprio pensiero. È attraverso gli assignment che ho elaborato un percorso ed una cifra espressiva.
Condividiamo molto, tu stesso condividi molto del tuo lavoro in rete. È importante tenere qualcosa in archivio e non mostrarlo nell’immediato?
Per alcuni può essere importante, può essere una necessità all’interno di un progetto. Io non amo i fotografi che si risparmiano, non amo la fotografia che si risparmia. Apprezzo chi mette sul tavolo tutto ciò che ha da dare. In definitiva, direi che uno può fare esattamente ciò che vuole.
E ognuno è anche libero di fotografare ciò che vuole?
La risposta è assolutamente sì, ma chiarisco. Esistono le fotografie, che sono quelle robe bidimensionali alla portata di chiunque e ognuno ne faccia l’uso che ritiene. Poi c’è la Fotografia, bella maiuscola, che usa le fotografie come strumento per esprimere con precisione sé stessa. Cioè la visione dell’autore. Che non è necessariamente maiuscolo… autore è chiunque affronta coscientemente il piano fotografico. Per esprimere la propria visione. Perché la Fotografia non si occupa del visibile, ma dell’invisibile alla tua portata: lo vedi o no? Se vedi, restituisci. Questo fa un fotografo, per me.
Sei competitivo?
La fotografia non si misura in termini competitivi. Penso che partecipare ad un contest o a qualsiasi altra forma di gara che preveda un vincitore sia un atteggiamento suicida. La fotografia non è una sfida con gli altri, semmai è una sfida con te stesso, e la sfida è essere sempre più preciso rispetto al tuo intento espressivo. Quanto più c’è precisione tra ciò che volevi dire e ciò che hai detto, tanto più questo fa di te un autore. A volte anche maiuscolo.