Tony Gentile, in queste settimane la tua fotografia più celebre, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridenti, compie venticinque anni. Hai raccontato molte volte come è nata quella foto, ma come cambiato il significato di quell’immagine in questi venticinque anni?
Questa fotografia ha avuto molte vite. Nasce nel momento in cui la realizzo, la sera del 27 marzo 1992. Poi la morte di Falcone e la morte di Borsellino ne cambiano il significato intimo. Quando muore Giovanni Falcone, quella fotografia rappresenta un uomo che lascia il proprio testimone al migliore amico, al collega magistrato che può portare avanti il lavoro. Ma cinquantasette giorni dopo muore anche Borsellino e quella foto acquisisce un terzo significato, in quel momento parla di due uomini sconfitti ma che non vediamo morti, anzi, vediamo vivi e sorridenti.
Ma tutto questo può nascere davvero da una foto casuale?
Molto spesso si è detto che è una foto nata dal caso durante un convegno. Ma se fai il fotografo non lavori in modo casuale, scatti la foto nel momento in cui decidi che è necessario scattare. Basta guardare la sequenza del negativo ed è chiaro che, dopo aver fatto quella foto, ho chiuso la macchina fotografica e sono andato a sviluppare. La fotografia nasce con l’intenzione precisa di chi la scatta. È sempre un lavoro autoriale, non ha nulla di casuale.
Ma se fai il fotografo non lavori in modo casuale, scatti la foto nel momento in cui decidi che è necessario scattare.
La sua forza simbolica sta nel fatto che è un’immagine di vita.
Ci siamo abituati a vedere Falcone e Borsellino vivi, a differenza di molte altre vittime di mafia. Per la collettività che ha adottato questa fotografia, questo ha un forte significato simbolico. Ma ha un significato anche in termini di narrazione fotografica della mafia. La mafia era sempre stata raccontata attraverso la morte e, con questa foto, questa idea inizia a cambiare. Si racconta un pezzo della mafia attraverso la vita, in quel momento la gente può attaccarsi ad sorriso e ad una speranza.
Sei un cronista, documenti i fatti quotidiani, e questo è un mestiere di cui c’è sempre bisogno. Senza la pura e semplice documentazione dei fatti, noi non avremmo memoria di quel periodo di guerra in Sicilia.
Ho sempre amato questo tipo di fotografia, ho sempre pensato che la fotografia abbia come scopo principale quello della memoria. E la storia, i fatti, sono legati alla memoria. Il fotogiornalismo dev’essere fatto di questo. Probabilmente, negli anni, al fotogiornalismo si è aggiunto un taglio estetico, è stata aggiunta la narrazione. Ciò che io amo è esattamente raccontare i fatti. Vedere per poter raccontare, è questo il lavoro del fotogiornalista, è talmente semplice da spiegare. L’estetica, nel giornalismo, andrebbe lasciata da parte, o maturata solo successivamente, la priorità è lasciare un documento della storia.
Vedere per poter raccontare, è questo il lavoro del fotogiornalista, è talmente semplice da spiegare.
Stai per portare ad Arles una mostra sulla Sicilia degli anni ’90 il cui titolo è “La Guerra”. Perché questo titolo?
Perché la guerra è fatta visivamente da alcune cose molto precise. I morti, i bombardamenti, l’esercito e i militari. In quegli anni, Palermo e la Sicilia hanno avuto tutto questo. Le immagini di quegli anni sono immagini di guerra.
In questa serie, c’è un’altra immagine del giudice Falcone che hai intitolato “La Solitudine”. Forse questa è l’altra parola chiave di quel periodo?
Assolutamente sì. Molto spesso si è detto che Falcone e Borsellino sono morti perché sono stati lasciati soli. È clamoroso l’esempio del loro lavoro all’Asinara, due giudici che scrivono gli atti di un processo chiusi su un’isola insieme ai detenuti. Ma anche la gente, spesso, non li ha amati. Non voleva le sirene, le scorte, le aree vietate perché passavano i magistrati. La solitudine di quel periodo è un fatto reale, e questa solitudine nella ricerca iconografica per la realizzazione della mostra l’ho riscontrata in alcune precise fotografie.
I morti, i bombardamenti, l’esercito e i militari. In quegli anni, Palermo e la Sicilia hanno avuto tutto questo.
C’è un limite da non superare, per sensibilità, all’esposizione delle foto di cronaca in una mostra pubblica?
No, non credo che ci sia un limite. Non dev’esserci un limite nel realizzare fotografie e, siccome le foto si realizzano perché qualcuno le veda, allora non c’è un limite nel mostrarle. Possono esserci accortezze quando i contenuti sono molto espliciti, allora posso limitarne la visione a bambini, posso informare il pubblico e accompagnarlo nella visione di queste immagini. Ma non ci sono limiti, solo accortezze nell’esporre determinate immagini.
Parliamo spesso di momento dello scatto e momento della diffusione. Ti sei mai trovato con fotografie che non hai ritenuto opportuno fare uscire?
Direi di no. Via D’Amelio era uno scenario terribile, camminavi sui resti dei cadaveri, io non ricordo di aver fatto questo tipo di fotografie in Via D’Amelio. Non faccio il fotografo della scientifica. Sono scelte che puoi fare nel momento in cui scatti. Ho cercato, in questo genere di situazioni, di raccontare senza entrare in dettagli superflui, che non aggiungono altro. È una selezione che puoi fare in partenza.
Tu eri piuttosto giovane all’epoca di Via D’Amelio.
Avevo ventotto anni, in realtà non ero così giovane. Ero giovane da un punto di vista professionale, nel 1992 lavoravo da appena tre anni. Ma Palermo, una città in cui si vive ancora oggi prevalentemente per strada, è un posto in cui una persona cresce più velocemente, si cresce per strada, ci si confronta con le persone per strada, si cresce prima. Quando ti buttano per strada e ti mandano a fotografare qualsiasi cosa, fai un’esperienza che in altre regioni del mondo sono più lunghe.
Quando ti buttano per strada e ti mandano a fotografare qualsiasi cosa, fai un’esperienza che in altre regioni del mondo sono più lunghe.
Dall’esperienza sulla strada nascono le tue valutazioni su che cosa fotografare e che cosa tralasciare?
Sì, ma c’è anche una questione tecnica che spesso viene dimenticata. Nel 1992 si fotografava in analogico, per cui avevo dei tempi da rispettare con la redazione. Non puoi restare ore sulla scena di un omicidio, devi fare le fotografie che ti servono e poi tornare subito al giornale per svilupparle. Oggi, con il digitale, non devo più allontanarmi, invio il lavoro direttamente dalla macchina fotografica e posso restare sul posto per rendermi conto di ciò che avviene anche nelle ore successive. Questo spiega perché, allora, c’erano molte meno fotografie che documentavano un evento, mancava il tempo.
Sono passati trent’anni dal tuo inizio e da quel tipo di fotografia. Oggi segui per una grande agenzia i viaggi istituzionali del Papa, eventi come il G7 a Taormina. È molto cambiato il tuo modo di lavorare?
Oggi lavoro per la Reuters, un’agenzia internazionale che ha un suo mercato e sue esigenze. Il Papa e il Vaticano, per chi lavora a Roma, è uno dei soggetti più interessanti. A me è sempre piaciuto fare il fotogiornalista di cronaca, raccontare i fatti che ogni giorno succedono. Adesso continuo a fare questa cosa, sono cambiati i riferimenti perché non racconto più i fatti regionali o locali, ma racconto storie interessanti per il mondo intero dell’informazione. Anche se possono sembrare situazioni più banali, sono storie che contribuiscono a raccontare la Storia del mondo in cui viviamo, così come quelle storie che ho raccontato a Palermo trent’anni fa.
Tu pensi che queste foto, viste da milioni di lettori ogni giorno, riescono a cambiare qualcosa nel mondo?
Credo che il fotogiornalista non cambi le cose del mondo. Un fotografo di guerra non può far smettere una guerra. La Storia ci dimostra questo. Però può cambiare la percezione da parte delle persone, da parte di chi guarda quelle immagini. Nel momento in cui io ti mostro un fatto, tu non puoi più dire di non sapere. Il ruolo del fotogiornalista è raccontare perché la gente sappia, perché non abbia più scuse. Poi tocca alle persone decidere di fare qualcosa per cambiare.
Nel momento in cui io ti mostro un fatto, tu non puoi più dire di non sapere.
Il tuo riferimento sono i lettori, non i governi o, come si dice, “il potere”. Non vuoi mostrare “la guerra” al potere, vuoi mostrarla alle persone.
Questo sempre. Il governo sa perfettamente quello che sta facendo. Se devo comunicare a qualcuno, comunico alla gente. Ho una profonda consapevolezza della gente. Tornando alla mia foto più famosa, la grandezza di quella foto sta nel fatto che la gente la riconosce e non interessa a nessuno chi l’ha fatta, supera il valore del fotografo, supera il valore della fotografia, è un’immagine che arriva al cuore e alla testa della gente comune. Se tu dici “Falcone e Borsellino”, la gente pensa a quella foto. In quel momento hai fatto passare un messaggio per tutti. L’obiettivo dev’essere la gente, non le cerchie ristrette. È a questo che un fotografo dovrebbe aspirare.