in

Antoine D’Agata: la fotografia è l’arte dell’azione

Questa intervista è stata realizzata il 9 settembre 2017 a , nell’ambito del Caffè dei Maledetti Fotografi

Antoine D’Agata, quando ti sei reso conto che i tuoi lavori potevano avere anche un mercato?

Ho iniziato a lavorare con la fotografia abbastanza tardi, sono diventato fotografo all’età di trentotto anni, non sono uno che si è formato presto con la fotografia. Sono vent’anni che faccio questo lavoro e che mi batto per non essere influenzato. Ho viaggiato per il mondo, ho vissuto per strada, ho fatto molte esperienze estreme, sono sopravvissuto. La fotografia mi ha permesso di raccontare queste esperienze. Naturalmente, per fare questo ho necessità di utilizzare dei meccanismi commerciali, sono necessari per preservare la mia indipendenza. È il compromesso necessario che mi ha permesso di preservare la mia libertà.

La libertà dell’artista?

Più che la libertà dell’artista, è la libertà dell’essere umano. Una libertà politica, dei sentimenti, una libertà su molti livelli. È una libertà indispensabile più che per lavorare, per vivere.

Ho viaggiato per il mondo, ho vissuto per strada, ho fatto molte esperienze estreme, sono sopravvissuto. La fotografia mi ha permesso di raccontare queste esperienze.

Tu sei un fotografo dell’agenzia Magnum. Quale è la tua idea di fotogiornalismo?

Critico il fotogiornalismo, critico tutto il fotogiornalismo per come viene in genere interpretato. Rifiuto il fotogiornalismo inteso come un mestiere al servizio dei media. Allora, mi inserisco più nella tradizione documentaria della fotografia. In realtà, Magnum è un gruppo di fotografi elitari che lavora con un proprio codice di comportamento. È un gruppo in cui io non mi identifico. Sono entrato in Magnum per occupare uno spazio e per battermi dall’interno per affermare ciò che voglio.

Hai detto che “il mondo non è fatto di ciò che vediamo, ma di ciò che facciamo.” Prima c’è sempre l’azione, poi viene costruito un pensiero, una visione, a volte anche l’arte?

Per molti anni ci siamo abituati ad intendere la fotografia come l’arte del guardare. La fotografia è diventata quindi una competizione tra chi era in grado di guardare meglio il mondo, una gara all’eccellenza dello sguardo. Ha sempre vinto lo sguardo più profondo, più estetico, più pertinente. Secondo me la fotografia non è nulla di tutto questo. La fotografia è l’arte del prendere posizione, l’arte dell’azione. Quello che mi interessa è la prospettiva che giustifica ogni immagine, non è importante l’immagine che hai fatto ma è importante la posizione che hai preso mentre realizzavi quell’immagine. I fotografi sono responsabili delle loro relazioni con le persone che fotografano, con le situazioni che documentano. La fotografia è un momento fondamentale della vita e dell’esperienza, non dello sguardo.

In realtà, Magnum è un gruppo di fotografi elitari che lavora con un proprio codice di comportamento. È un gruppo in cui io non mi identifico. Sono entrato in Magnum per occupare uno spazio e per battermi dall’interno per affermare ciò che voglio.

Che cosa ha a che fare questa fotografia con la verità?

Non c’è verità. Ogni fotografo ha una responsabilità, non ha una verità. Queste immagini non sono risposte, sono domande.

Hai fotografato gli eccessi dell’uomo contemporaneo in diverse aree del mondo. Queste persone hanno qualcosa in comune?

Ciò che intendo fare con la fotografia è un tentativo di documentare la violenza nel mondo. Credo che ci siano due tipi di violenza con cui ci relazioniamo. C’è una violenza esterna, che non mi appartiene, è la violenza economica, politica, della guerra, della migrazione. Poi c’è una violenza che agisce in risposta alla prima, è la violenza personale, del sesso, della droga, del crimine, la violenza della notte. È questa violenza che ho conosciuto da vicino ed è la violenza che mi appartiene. Queste foto sono un confronto tra due violenze assolute, insopportabili. Nel complesso della mia opera, queste due violenze si confrontano, è una lotta eterna.

Ogni fotografo ha una responsabilità, non ha una verità.

Credi che il mondo si occupi molto più del primo tipo di violenza – le guerre, il terrorismo – rispetto alla violenza privata?

Ad un certo punto ho voluto uscire da una prospettiva umanitaria della fotografia, staccarmi da quel tipo di fotografia che vediamo nei media e che riguarda, in effetti, il primo tipo di violenza. E per fare questo, ho dovuto cambiare il modo in cui veniva utilizzata la fotografia. Si trattava di cambiare la posizione del fotografo, il quale non poteva più vivere in una situazione di comfort, essere un osservatore. Dovevo accettare una posizione più complicata, più sfidante e scomoda. Ma il mio atteggiamento fisico rispetto ai soggetti è sempre molto difficile da mettere in relazione con i rapporti economici, le relazioni di lavoro sempre molto rispettabili di chi commissiona ed è interessato alle mie fotografie.

Il tuo è un altro tipo di empatia rispetto a quella di chi si è sempre occupato di reportage e documentazione?

Sì, è esattamente così.

Ci vuole più tempo per costruire questo tipo di relazione con i soggetti?

Non è un problema di tempo, è un problema di parte della scena che si decide di occupare. Ancora oggi, sono uno che proviene dall’altra parte della barricata, mi ritengo ancora una persona contro il sistema della fotografia e cerco sempre di rapportarmi dall’interno, e non dall’esterno, rispetto ai soggetti che fotografo. Non c’è una posizione ideale, pura, giusta. È tutto un tentativo di fare ciò che bisogna fare per preservare la libertà di azione e la libertà di posizione. Nell’ideale non bisognerebbe essere artisti, non bisognerebbe essere fotografi, ma bisognerebbe semplicemente vivere e rompere i rapporti tra le cose.

È tutto un tentativo di fare ciò che bisogna fare per preservare la libertà di azione e libertà di posizione. Nell’ideale non bisognerebbe essere artisti, non bisognerebbe essere fotografi, ma bisognerebbe semplicemente vivere e rompere i rapporti tra le cose.

Per portare avanti un lavoro di questo genere quanto rischio ti prendi?

Il rischio è minimo, inesistente, se confronto la mia esistenza a quella della gente che fotografo. La gente che fotografo muore ad una velocità incredibile. Sono in una condizione molto comoda, sono privilegiato perché sopravvivo e posso uscirne quando mi pare.

Il tuo lavoro viene poi ricostruito ed editato in modo molto preciso e declinato in un libro o in una mostra. Che atteggiamento hai rispetto a questi prodotti?

Faccio molti libri, ne ho fatto più di quaranta in vent’anni. Dal momento che nel mondo moderno è sempre più difficile mostrarsi, trovare uno spazio, il libro è uno strumento per imporre il mio lavoro. In sostanza, il libro è uno strumento di guerra. E le mostre sono la stessa cosa. C’è un imperativo economico da rispettare per poter stare al mondo, bisogna trovare la formula necessaria per arrivare alle fine. Allestire mostre è anche utile, perché mi costringe a dare un ordine a tutto il materiale che ho. In effetti è sempre difficile trovare una logica, trovare il modo di ordinare il materiale, avere poco denaro, è una sfida continua con le mie ambizioni, perché io vorrei fare sempre di più.

Tutta la tua vita è cercare una soluzione a questa gabbia economica in cui siamo necessariamente costretti?

No, tutta la mia vita è confrontarmi con la contraddizione permanente. Quello che voglio in realtà è battermi contro il sistema, ma non posso farlo se non ci sono dentro. E starci dentro è accettare di essere un prodotto, far parte di una logica di consumo in cui entrano gli artisti, i fotografi, i galleristi, gli spettatori, gli operatori culturali. Il mio tentativo è destinato ad una sconfitta, sono destinato a perdere, al ridicolo. Per questo, ciò che mi rimane è l’assunzione di responsabilità, ognuno dovrebbe assumersi le proprie responsabilità di fronte a queste immagini orribili che, però, sono diventate anche un prodotto di consumo.

Ci sono regole per tenere in equilibrio il tuo modo di fare fotografia, così contraddittorio, così complesso?

Mi assicuro sempre che, prima di entrare in ogni situazione, il desiderio e la paura abbiano la stessa forza ed esistano allo stesso tempo. Se c’è il desiderio e non c’è paura, il rischio è ottenere fotografie pornografiche. Se la paura prevale sul desiderio, emergerebbe solo la nostra parte animale.

Se c’è il desiderio e non c’è paura, il rischio è ottenere fotografie pornografiche. Se la paura prevale sul desiderio, emergerebbe solo la nostra parte animale.

Ritieni che il tuo lavoro possa diventare una maniera?

Quando si tratta di tradurre e mostrare il mio lavoro, vivo sempre di più una frustrazione e una sofferenza. La mia paura è che il mio lavoro venga compreso nella direzione sbagliata. Faccio molti workshop e la mia preoccupazione è che non venga compreso che la chiave di tutto è appropriarsi dell’esperienza, della vita, della propria responsabilità. Non è molto utile copiare il mio stile, il mio linguaggio, l’uso dello sfocato, non è importante occuparsi una certa problematica sociale. Vorrei che le persone capissero quale è la posta in gioco, come affrontare il mistero dell’esistenza nel modo più completo ed ambizioso possibile. Se c’è una tecnica, possiamo riassumerla in questo modo: leggo molto, specialmente romanzi, un ambito dove non esistono limiti, e questi romanzi sono il mio spunto per una sceneggiatura di vita dove non esistono limiti. Riesco a vivere in una maniera insensata, sperimentando tutti gli estremi. In un certo senso è una forma di ateismo, non si da per scontato che esista un Dio, la vita va sfruttata.

In diverse occasioni, durante la tua vita, hai smesso di scattare e poi hai ricominciato.

Per lavorare ci vuole un equilibrio tra la fotografa e la vita, ed è molto difficile da trovare. Se c’è troppa fotografia, vuol dire che non c’è l’esistenza, non c’è la vita, e le fotografie diventano artificiali. Se ci fosse troppa vita, non avrei voglia di fare fotografie ovviamente. Questa è la ragione per cui ho interrotto più di una volta. Ogni volta, si tratta di uscire da un piccolo spazio di comodità nel quale tutti ci troviamo, da un determinato momento in cui viviamo senza soffrire e stiamo bene, e per una forma di responsabilità buttarsi di nuovo fuori. È una scelta.


Fonte: https://www.maledettifotografi.it/fotografi/feed/


Tagcloud:

Maria Giovanna Elmi: “Le foto in topless e quella volta che Audrey Hepburn mi chiese l'autografo”

Come fare guanti senza dita