Renzo Arbore è la personificazione vivente dell’immaginario popolare. Foggiano nato nel ’37, erede di se stesso, capostipite in ogni cosa che ha fatto. Sua l’Orchestra Italiana, suoi i programmi di culto, tra facce, slogan e ‘kazzeggi’ rimasti nel tempo. Se l’elenco dei talenti lanciati è arcinoto, dovremmo ricordarci più spesso che la paternità di tanti speaker radiofonici, o almeno dei più bravi, gli spetterebbe per statuto. E che, dopo 30 anni, gli unici programmi di successo popolare vero restano quelli col suo zampino. Lo abbiamo incontrato nei giorni del Medimex di Foggia. L’ensamble Renzo Arbore & Friends dello scorso 12 aprile è stato una conferma. Proprio in quelle strade, sin dal Dopoguerra, si respirava già musica, tra il circolo americano jazzista, le bande, le canzoni napoletane di chi le case le ricostruiva.
Che ragazzo era all’epoca?
“Il contrario di quello che sono ora. Ossia il più timido della città. Sono sempre stato un bravissimo ascoltatore e assimilatore. Frequentavo tutti, senza snobismo. È un vantaggio che ti dà solo la provincia, ancora oggi lo rivendico con forza. Non frequentavo solo l’élite degli amici, parlavo con tutti. Col carrettiere, con lo scappato di casa, col delinquente, col figlio di papà, con quelli che usavano a biliardo lo sfottò e che vincevano o perdevano a bocce, col prete. Questa fauna, piuttosto varia, mi ha formato. Oltre ad aver dato una stura al mio senso dell’umorismo. Mi definisco un animale sociale da sempre. A Foggia, di fronte a Palazzo Arbore, c’era Palazzo Frattarolo, che ospitava il circolo americano. Divenne per il jazz un punto di riferimento. Ogni sera l’appuntamento era fisso”.
Il primo a mettere i jeans a Foggia, creò un punto di rottura.
“Mio padre Giulio diceva: ‘Perché indossi i pantaloni da elettricista? Non hanno nemmeno la piega’ (ride, ndr). I miei prediletti a Foggia erano gli artistoidi, gli originaloni, finti o grandi ‘pittori’ del futuro. Ero anch’io uno di loro. Negli anni ’50 non trovavi i blue jeans nei negozi, li comprai al mercato americano, anche a Napoli ad indossarli fui uno dei primi”.
Il primo ricordo dei suoi genitori qual è?
“Papà era il dentista più famoso di Foggia. Era bravissimo, il suo studio era ogni giorno strapieno. Aveva, come molti medici, il gusto del sorriso. Doveva tranquillizzare i clienti, e quel sorriso veniva ovunque ricambiato. Credo di aver preso l’inclinazione al sorriso da lui. Amava la musica lirica e napoletana. Si laureò in medicina a Napoli, dove si stabilì con mia madre. Tornarono a Foggia dopo 2 anni. Ma la cultura napoletana rimase nel nostro DNA. A Napoli ci tornavamo spesso, l’aria era più dolce. Dopo il liceo, mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza della Federico II, nel capoluogo partenopeo. All’inizio vivevo in una pensione singolare, in via dei Mille, immerso in una fauna multicolore. Anche mia madre Giuseppina, donna di grande fede, amava il repertorio napoletano, e si sedeva spesso al pianoforte. Mia sorella più grande, mezzo soprano, che non c’è più, cantava pure lei canzoni napoletane”.
Quanto alla sua carriera, ha parlato del fare “con le parole quello che si faceva con gli strumenti”, di jam session, di improvvisazione. La radio oggi è agli antipodi.
“Ormai è diventata industriale, la fanno i computer. Nel periodo delle radio libere aveva una personalità spiccata e definita. E i dj sceglievano e lanciavano i successi, oltre a parlare. Iniziai io, con Gianni Boncompagni. Facevamo programmi settoriali. Bisognerebbe tornare ad avere dei dj che educhino ed orientino il pubblico. Spesso nelle radio italiane non annunciano manco i titoli, va sempre la stessa playlist, tutto il giorno. Spero che qualcuno riprenda a lanciare un tipo di musica che piace ad un target più esigente. Altrimenti i successi li decideranno sempre Sanremo e qualche talent. Alcuni tra i rapper di Sanremo 2019, mai li avremmo sentiti in radio, senza il passaggio all’Ariston. Il futuro premierà le radio specializzate in un preciso genere”.
Jannacci, Leali, Baglioni, Battisti, tra i 100 e passa lanciati.
“Al concorso per entrare in Rai, nel ’64, mi ritrovai Gianni compagno di banco all’esame. Ci promossero ‘maestri programmatori di musica leggera’, per ventitremila lire al mese. A Bandiera Gialla, eravamo corteggiatissimi dai discografici, a Natale ci inondavano di panettoni. Ma la priorità andava ai dischi che piacevano a noi. Trasmettevamo Patty Pravo e Lucio Battisti, tenuto a battesimo proprio in questo programma. Ci eravamo specializzati nel lancio di canzoni per le quali i discografici dicevano: ‘Sono dischi fatti per divertimento, non li acquisterà nessuno’. Vengo anch’io, di Enzo Jannacci, per qualcuno era da buttare, oggi è un sempreverde. A Chi, Fausto Leali non l’aveva manco incisa, la stava proponendo in un locale. Chiamai alla casa discografica e feci presente che sarebbe diventato un successo. Anche Piccolo grande amore, di Claudio Baglioni, fu una mia scoperta”.
Questa Rai come la vede?
“Ci si occupa troppo di informazione e di politica, l’intrattenimento viene considerato un corollario, dovrebbe invece essere il fulcro. Tutti identificano la Rai con Corrado e Raffaella, Mike Bongiorno, Pippo Baudo. La Rai dovrebbe non solo ossequiare il mercato. Ci vorrebbe di nuovo l’indice di gradimento. L’affezione al programma, che ha sempre premiato i miei spettacoli, è l’unica maniera per contrastare l’auditel, che ha ammazzato la qualità, dandola vinta al peggiore prodotto”.
Tv e politica negli anni ’70: che ricordo conserva?
“A L’altra domenica ci fu per la prima volta un telefono a disposizione del pubblico. Arrivò la prima parolaccia. Mi fu riferito in seguito di un tentativo di intervenire in diretta delle Brigate Rosse, per fortuna la linea era occupata. Andrea Barbato, ai tempi direttore del Tg2, in riferimento ad eventuali chiamate di movimenti extra-parlamentari, mi disse: ‘Lasciali parlare’. Furono anni formidabili ma anche terribili e difficilissimi. Il successo di Alto Gradimento, in radio, fu dovuto anche al fatto che era un periodo in cui non si rideva più. Le BR scrivevano: ‘Una risata vi seppellirà’. E poi non facevano ridere, ma sparavano”.
Fanfani e Cossiga erano suoi ammiratori.
“Per ognuno degli sketch in onda nelle mie trasmissioni fu necessaria una liberatoria, che mi feci firmare di persona. L’allora presidente del Senato Amintore Fanfani telefonò personalmente a Boncompagni per chiarire che lo sketch era stato di suo gradimento, e che se qualcuno si era lamentato, di certo non era stato lui. Quanto a Cossiga, durante una cerimonia ai giardini del Quirinale, mi prese sotto braccio e, assieme ad altri uomini di Stato e politici, iniziò a raccontare diverse scene di miei film e programmi. Le ricordava alla perfezione”.
Il conterraneo Conte le piace?
“Abbiamo qualcosa in comune, anche lui ha studiato giurisprudenza (sorride, ndr). Quando è stato eletto, ho pensato: ‘Ma questo, che viene da Volturara Appula, come farà a gestire ‘sta patata bollente?’ Invece se la sta cavando bene. E l’Italia sta accettando le sue mediazioni complicatissime”.
Venerdì 11 marzo 1988, ultima bombastica puntata di Indietro tutta!.
“Un momento irripetibile. Tutto lo Studio Tre di Via Teulada in tenuta balneare, anche Frassica ed io, col mio costume da piccolo marinaio. Lo share fu di oltre il 50%, il più alto in assoluto, con 9 milioni di persone davanti al televisore. La Rai si convinse a confezionare altre 20 puntate, denominate ‘Indietro tutta souvenir’, in onda nell’autunno successivo, e di proporre la trasmissione a Rai International, per il pubblico di tutto il mondo”.
Il legame con Nino Frassica è indissolubile, scalfito nell’immaginario popolare.
“È uno studioso di umorismo. I suoi giochi di parole, e le ricerche di tutto ciò che non è banale, lo rendono, ai miei occhi, un maestro odierno, da tenere assolutamente in considerazione. Ha assimilato i meccanismi umoristici della radio, dove ha in realtà cominciato, con me, facendo una rubrica sulle feste popolari in Alto Gradimento”.
Nell’Italia di oggi non si ride, i comici emersi negli ’90 sembrano imborghesiti, quelli nuovi non pervenuti.
“Effettivamente, bisogna ‘andare ravando’ per cercare una risata. La risate di pancia, di estrazione goliardica, in stile Amici Miei, della super cazzola, non esistono più. Si ride con la satira di Maurizio Crozza, che è bravissimo, e con Fiorello, grazie a dio. Resiste anche Nino, discendente dalla scuola del compianto Marenco”.
Porta l’umorismo di De Crescenzo nei suoi concerti in giro per l’Italia.
“Con applausi sempre puntuali, anche al Nord. Attingo dal suo repertorio, me l’ha ceduto. Lo racconto in quanto lui è impossibilitato a farlo, perché non sta benissimo. Luciano resta un maestro della risata raffinata, di originalità assoluta, colto, un napoletano per bene. Vittorio Feltri, in quanto al sesso, cita spesso una sua battuta: ‘Fatica tanta, piacere breve, la posizione è ridicola’. Tutto molto vero (grossa risata, ndr)”.
Per il compianto Boncompagni sta pensando ad un programma.
“Una serata interamente dedicata a lui, su Raidue. Mentre per Rai 5 sto preparando tre serate dedicate alla mia Orchestra Italiana, la più longeva, con 1500 concerti nel mondo e la stessa formazione dal ’91. La musica continua a darmi linfa. E mi rende avaro con la tv, foriera di preoccupazioni, sempre per colpa dell’auditel”.
Ha detto: Il lavoro di dj e giornalista, fatto da giovane, credo abbia lasciato un segno importante”.
“Ancor di più, lo è stato rappresentare, per tante persone, la distrazione prediletta da problemi ed affanni della vita. Resta impresso nella mia mente il giorno in cui Umberto Eco, nell’ottobre dell’95, mi conferì la laurea ad honorem in ‘Goliardia’ presso la facoltà di Scienze della comunicazione di Bologna, la più antica d’Italia. La spensieratezza delle mie trasmissioni aveva contagiato pure lui. Come credo un po’ tutti gli italiani”.
di Leonardo Filomeno