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Pierpa Peroni, il produttore mago del pop: “Da Deejay fino a Pezzali, vi spiego perché noi ragazzi dei '90 siamo ancora qua”

“Ho iniziato a fare il dj per necessità, perché da solo non potevo fare altro. La vita mi ha regalato la possibilità di affinare il gusto, di scegliere. Quando capisci qual è la canzone giusta per far felice chi è in pista, sei a metà dell’opera”. Pier Paolo Peroni, vecchia conoscenza, si conferma una persona semplice e senza filtri. Qualità rare tra gli addetti ai lavori. Autore televisivo, produttore, parlata celere, è da quasi 30 anni socio di Claudio Cecchetto, con cui ha condiviso trionfi, scommesse, intuizioni. Tira fuori pensieri piuttosto condivisibili sul ‘padre’ di Radio Deejay. E parla degli amici di una vita Jovanotti e Max Pezzali. La strana giostra della musica con lui non ha segreti, pochi meglio di Pierpa ne conoscono gli ingranaggi. Nel periodo più felice degli anni ’90 sulle canzoni di DeeJay Television, Radio Deejay e Capital era lui che decideva. E dalla sua testa è uscito il primo (e per ora ultimo) talent per dj della storia.

A proposito, dopo la sbornia dell’EDM i dj come se la passano? 
“Gli olandesi sono alla canna del gas. Ho assistito a uno show di Martin Garrix e l’ho trovato inascoltabile, terrificante, un roba da bimbiminchia. Ritornelli a caso e drop senza soluzione di continuità: un formula perfetta per chi di clubbing non capisce una mazza. La House, che mai è cambiata e mai morirà, è tornata a prendersi il posto che le spetta di diritto. Nasce tutto da lì. E quando c’è crisi è sempre al punto di partenza che si ritorna. Solomun è il numero 1, musicalmente e a livello di pubblico. Invece i Martinez Brothers sono la prova di come sia possibile riempire un locale di gente bellissima, che balla con della musica meravigliosa. I vecchi nomi, Sven Väth su tutti, non conoscono tramonto. Quanto al Latino e all’Hip Hop, dominano le classifiche e le donne non vogliono ballare altro. Sono quello che una volta era il Rock”.
Perché qualsiasi cosa arrivi dall’Italia ormai sembra non interessi a nessuno? 
“L’Eurodance dei mitici Cappella, Jinny e U.s.u.r.a. non esiste più. Tra un po’ dalle classifiche sparirà pure David Guetta (sorride, ndr). Anche nel Pop italiano ci sono meno passione, meno artigianalità, meno cura. Un album di 10 tracce lo chiudono tanto per chiuderlo. I nostri, negli anni ’90, avevano idee e personalità, e dietro c’erano maestri delle belle melodie, grandissimi musicisti reduci dal periodo d’oro degli anni ’80. Oggi il ragazzino è convinto che col portatile si possa realizzare un disco. E il risultato è quello che sentiamo. Aggiungo che dopo Claudio Cecchetto e pochissimi altri, nessun altro in Italia è stato capace di creare dei talenti veri, che resistessero nel tempo, e di investire su di essi. Quelli che ha lanciato Claudio sono ancora qui dopo 30 anni. Non c’è nemmeno bisogno che ti dica i nomi, li conosciamo tutti”.
Senz’altro è comodo puntare sui classici, lasciando in soffitta capolavori veri.  
“Il revival resta il momento villaggio turistico. Non è assimilabile al club. È una festa e basta. Un party ’70 e ’80 per me è roba da giostre. L’Italia, da questo punto di vista, è sempre stata molto provinciale. Prendi gli anni ’90: al netto di tutte le rivoluzioni di quella decade, continuano a piacerci i programmi di Italia 1, le Matricole, le Meteore e le trashate più assolute. In copertina farà sempre più effetto Samantha Fox che Björk (sorride, ndr)”.
Hai lavorato nella Radio Deejay più esplosiva di sempre. 
“Tra il ’90 e il ’94, il periodo in cui mi occupavo della programmazione musicale, era l’equivalente di una casa discografica col turbo. Sembrava la Factory di Andy Warhol, però fatta meglio. La Dance italiana di quell’epoca deve tantissimo alla risonanza che dava quel network. Aveva la potenza di fuoco di 10 giornali e 2 tv nazionali. E, soprattutto, una forte credibilità, perché trattavamo la musica con un amore incredibile. C’era il Disc-o-clock, annunciato e disannunciato ogni ora. Chi ci seguiva, la buona musica la conosceva meglio di un critico. Oggi i media musicali questo lavoro non lo fanno. Quando sento disannunciare un disco e sono in macchina, suono il clacson per la gioia. C’è sempre una musica di flusso, di cui però non dicono nulla. Evidentemente per l’italiano normale oggi non ha importanza”.
Albertino col Deejay Time dettava legge. 
“Un macchina in moto notte e giorno. Le compilation della Deejay Parade si vendevano a tonnellate. Se un disco finiva in quella raccolta, potevi comprarti un Mercedes. Se entrava solo nella classifica, ti compravi il Rolex. Un titolo che sentivi solo un po’ di volte in radio, vendeva 10mila copie. Che, con un contratto schifoso, da sottopagato, fruttavano comunque 10 milioni di lire. Adesso, se fai 10.000 download, a cena col produttore manco ci vai (ride, ndr)”.
Hai detto: “Di un ragazzo di 20 anni, oggi, mi fido più di me stesso”.  
“Faccio fatica a definire Rock o Indie questa ondata di musica italiana che è partita con Thegiornalisti e Coez e sta continuando con Frah Quintale ed altri. Le major hanno cercato di prenderseli, ma fanno da soli, guadagnando il 100% e collezionando grandi numeri. Se prima mi chiamavano manager mi incazzavo, perché ho sempre fatto il produttore, adesso invece resto tranquillo. Il mercato va così e non c’è più bisogno di una rappresentanza ufficiale. Sicuramente mi fido meno di uno che si presenta col provino chitarra e voce su cd, in stile anni ’70. Oggi prima ti crei la tua micro nicchia, perché ormai tutto è micro nicchia. Poi vieni da me con le idee chiare e tutto pronto, e io ti do dei consigli, ti offro la mia esperienza. Ma la parte artistica deve essere tua. Tu hai 20 anni, tu sai cosa piace a chi parli”.
Per memorizzare Fedez servono sforzi importanti, Con un Deca comunque la ricordi.  
“Infatti corriamo il rischio di lavorare per tutta la vita e diventare leggendari. Sta già avvenendo. Ci sono 50 vecchi che fanno i palazzetti da 20 anni, ogni anno se ne aggiungono uno o due al massimo. È preoccupante. Vuol dire che un emergente fa il primo disco buono, col secondo è in calo, col terzo è morto”.
“La festa è finita, gli Amici se ne vanno”? 
“Ormai i talent vanno avanti a 14enni. Si presentano le stesse persone scartate un anno prima. Trovo che siano degli spettacoli musicali molto belli, ma al fatto che centrino qualcosa con la musica non ho mai creduto più di tanto. Che uno sia bravo o in grado di vendere non ha rilevanza per chi li produce. La priorità è fare tv e trarne profitto, comunque vadano le cose ai partecipanti”.
Top Dj lo rifarai? 
“Con buona pace dei puristi, ritengo il passaggio da Sky a Mediaset un’esperienza molto interessante dal punto di vista del successo televisivo, perché lì fai un milione, non 100mila. Non so se tornerò a farlo. In tv il budget per queste cose è risicato, piuttosto che fare un cazzata sto fermo, ci tengo troppo. La bolla dei dj si è parecchio sgonfiata. Tre anni fa pensavamo di mettere in giuria Merk & Kremont. Oggi mi vengono mente ancora loro. Evidentemente qualcosa nell’esplosione dei talent dei dj italiani non ha funzionato”.
Qual è il risultato che si vuole ottenere oggi nella musica  
“Quello di Oh, vita di Jovanotti. Ossia fare un disco come cazzo ti pare, togliendoti possibilmente uno sfizio. Lorenzo poteva fare 200 scelte, ha preso la strada più complicata, che lo ha gratificato maggiormente”.
Cosa hai pensato quando hai sentito la mano di Rick Rubin sulle tracce? 
“Se il problema è quello delle basi scarne, il 90% della musica oggi si basa su quel concetto. Lorenzo può permettersi di fare almeno altri 3 dischi come vuole, prima che qualcuno dica: Mi sto annoiando, quando ne fai uno alla vecchia maniera?. Il problema è che i dischi alla vecchia non tornano più. A 20 anni fai pezzi con l’impeto di quella età. Tra i 30 e i 35 racconti quello che facevi a vent’anni. Se continui a farlo è solo nostalgia e tristezza”.
Insieme tu e Lorenzo avete fatto di tutto. 
“Sono nato a Roma, lì avevo un negozio di dischi e lavoravo in radio. Con Lorenzo facevamo i dj in locali diversi della Capitale. Quando finivamo, l’appuntamento al cornettaro su Corso Francia era fisso. Abbiamo lavorato anche al Lanternone di Palinuro. Dormivamo nella stessa casa e ogni volta dovevo prendere le sue scarpe e nasconderle nello sgabuzzino, la puzza era talmente forte da togliere il sonno (ride, ndr). Lorenzo arrivò a Milano nell”87, io un anno dopo. Mi chiamò perché Claudio Cecchetto aveva bisogno di qualcuno per DeeJay Television. Durante i primi tempi non succedeva nulla. I soldi stavano finendo, mi salvai prendendo il posto di uno che andò via. Da quel giorno, non ho più lasciato Milano”.
Hai detto: “Essere amico di Cecchetto mi fa sentire un privilegiato”. 
“Claudio è stato tutti gli uomini che un uomo possa avere nella vita come riferimento: capo, padre, amico, fratello maggiore. Siamo come una famiglia felice. Che ha trovato finalmente il suo equilibrio”. 
Da produttore, quali critiche sugli 883 ti hanno fatto più male? 
“Quelle di chi ancora non si dà pace che con le loro canzoni sia cresciuto un grosso pezzo d’Italia. E di chi considera tutta quella gente stupida. Il racconto di una generazione e della provincia lo hanno fatto in tanti, ma nessuno ha avuto l’occhio e la lucidità di Max Pezzali. Da quando ricevetti la loro prima cassetta con Non me la menare, credo di aver passato più tempo con lui che con mia moglie e i miei genitori, tra ristoranti, Autogrill, concerti”. 
Qual è il primo ricordo della tua vita legato alla musica? 
“Il mare di Lavinio e la Hit Parade con Lelio Luttazzi, con Acqua azzurra, acqua chiara di Lucio Battisti, tutte le settimane in testa”.
La cazzata da non rifare? 
“Non ho scheletri. A parte il disco per Anna Falchi. Una cagata gigantesca, però faceva ridere. Non ho mai cercato il successo, l’esposizione. Ho fatto tutto nei tempi giusti. In tv, dopo X Factor – Il processo, non ho fatto la cazzata di reinventarmi opinionista. Né ho cercato in radio di fare lo speaker. Ho sempre fatto solo ciò che mi riesce”.
Due figli e una moglie nota, Syria. Come va?
“Di come sto crescendo i miei 2 figli sono soddisfatto. E il fatto che mio figlio Romeo continui ad essere laziale a Milano, dove è nato, mi rende orgoglioso (ride, ndr)”.
Dopo tutti questi anni in pista come ti senti?
“Cazzo, ho 58 anni e sono sempre in giro, in piedi, in forma. E ancora a questo livello. È davvero tanta roba. Ne ho visti di cavalli correre assieme a me. Mi hanno superato in tanti, e in tanti son caduti, o sono spariti. È un po’ come fare il palio. E io resto sempre lì. A girare come un pazzo”.

A sorpresa, giunge nella notte un WhatsApp di Pierpa: “Domani (oggi, 23 marzo 2018, ndr) esce Pier Paperoni – It Takes a Fool to Remain Sane feat. Alice‘, primo singolo del mio primo, unico e ultimo disco da solista”. Quello del classico degli Ark è un rifacimento fatto in casa, l’Alice che canta è la figlia di Pier Paolo e Syria. Il pezzo è una bomba elettronica da volume a palla e, vivaddio, ha quasi nulla a che vedere con i remix già esistenti dell’originale, che nel 2001 ebbe un’inaspettata ed infinita accoglienza anche nei club. In quanto primo e ultimo, il progetto ricorda l’interessante esperimento Airys dell’estate 2009. Dove Airys stava per Syria, scritto al contrario. 

di Leonardo Filomeno 
@l_filomeno


Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/rss.jsp?sezione=375


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